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Qatar 2022: lo sportswashing del Mondiale “climatizzato”

Si sta aprendo il campionato mondiale di calcio di Qatar 2022 che è stato accompagnato fin dall’inizio da denunce di violazioni di vario ordine, a partire da quelle relative allo sfruttamento del lavoro (che ha causato oltre 6.500 morti tra gli operai, in prevalenza stranieri, addetti all’edificazione delle infrastrutture per l’evento), fino alle questioni LGBT e ambientali. Ne abbiamo parlato con Andrea Rizzi, dottorando in ecologia politica presso l’università di Bologna e occasionalmente commentatore sportivo.

Dopo il Brasile e la Russia, è la volta di Qatar 2022. Sembra che i Mondiali di calcio maschile facciano a gara per venire ospitati in contesti controversi in termini in primo luogo di diritti umani, ma non solo. Com’è possibile che un evento di tale portata non desti l’attenzione internazionale su questo aspetto?

Non si può dire che non la desti, ma lo fa per un periodo limitato e in un ambito limitato. È uno dei tanti temi su cui scatta l’“indignazione a tempo” della nostra società ipocrita. Quando esce la notizia dell’assegnazione, e quando l’evento si avvicina, c’è un fiorire di approfondimenti giornalistici, dichiarazioni sdegnate, prese di posizione sui social e simili manifestazioni sull’onda dell’emotività. Qualche personalità del mondo sportivo o politico si schiera, qualcuno si spinge a boicottaggi simbolici (ad esempio Hummel), ma poi sostanzialmente finisce lì. Il carrozzone mediatico va avanti, il tifoso medio dimentica (o fa finta), calciatori e dirigenti fanno orecchie da mercante e al calcio d’inizio si ricomincia a concentrarsi sul colore degli scarpini del tal giocatore e sulla dieta che ha seguito la tal squadra. Certo non è nell’interesse degli sponsor della Gazzetta o di Sky Sport che la gente boicotti davvero la manifestazione.

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Inoltre – e forse più importante – la riprovazione di parte del pubblico non tocca la FIFA, che al di là di un marginale danno d’immagine (rappezzato con rassicurazioni di facciata) può tirare dritto senza problemi. Questo rivela lo scollamento tra la classe “dirigente” sportiva e la base popolare, dimostrando una volta in più come lo sport sia specchio della società in cui è inserito.

Nell’attuale situazione globale, in cui le problematiche legate all’inquinamento e al surriscaldamento climatico non possono venire ignorate, anche la questione geografica pesa su questi Mondiali. Da un lato c’è l’evidente contesto inadatto del Qatar allo svolgimento di un torneo simile, dall’altro c’è l’impatto che le infrastrutture legate a questo Mondiale avranno sull’ambiente.

È difficile dire quale sia l’aspetto più sfacciatamente criminale di questi Mondiali, ma si può sostenere senza iperboli che l’insostenibilità ecologica di questa edizione sia ancor più grave – nel medio termine – delle violazioni dei diritti dei lavoratori. Un’importante premessa: bisogna capire che la crisi climatica non riguarda (solo) foche e mangrovie, ma riguarda tutti noi. Gli uragani, le alluvioni, le siccità, le carestie, le ondate di calore, che uccidono e devastano anche alle nostre latitudini, sono resi più potenti e frequenti dal cambiamento climatico, a cui eventi come questo danno un sostanzioso contributo.

Com’è noto, per ospitare gli incontri delle ben 32 squadre partecipanti il comitato organizzatore ha predisposto la costruzione ex novo di ben sette stadi, uno dei quali addirittura concepito come struttura temporanea: denominato “Stadium 974” (che è anche il prefisso internazionale del Qatar), l’impianto è costruito con i materiali contenuti in altrettanti container, che a fine Mondiale verranno rispediti “al mittente” con la conseguente doppia impronta carbonica associata al loro trasporto. Tutti gli stadi, ovviamente, dovranno essere climatizzati con innovativi sistemi estremamente energivori, e questa è solo la punta di un “iceberg di emissioni” che comprenderà – tra le altre cose – trasporti, sistemi ricettivi, impronta digitale. Secondo i dati ufficiali, la manifestazione comporterà l’emissione di 3,6 milioni di tonnellate metriche di carbonio, mentre in realtà, a sentire l’organizzazione non governativa Carbon Market Watch e la startup parigina focalizzata sulla gestione del carbonio, Greenly, la cifra potrebbe raggiungere i 6 milioni di tonnellate. Il dato ufficiale sottostimato, abbinato a fantasiose attività di compensazione, consente di poter “vendere” l’evento come green. Peccato che il calcolo sia stato eseguito da South Pole, azienda di consulenza che è leader globale – tra le altre cose – nel lucroso mercato della compensazione del carbonio. Questo intreccio di controversie ha portato la stampa più attenta a parlare di sportswashing.

Qatar 2022
Uno degli stadi qatarioti in costruzione (fonte Unsplash)
La FIFA come si è difesa rispetto alle critiche e alle controversie legate a questi Mondiali?

Il comune denominatore degli aspetti toccati sopra (l’impatto umano e quello climatico) è la mancanza di accountability: nessuno è davvero chiamato a rispondere di crimini e discriminazioni, anzi chi siede nelle “stanze dei bottoni” ne esce arricchito. La FIFA, dunque, non ha bisogno di elaborare convincenti arringhe difensive, poiché non vi è una condanna sociale paragonabile all’entità dell’enorme danno sociale e ambientale arrecato. Bastano un po’ di greenwashing, qualche campagna di responsabilità sociale ben messa in scena, una smentita al momento giusto e nessuno chiede conto delle violazioni su più livelli associate alla manifestazione. Anzi, a dire il vero il presidente FIFA Gianni Infantino ha chiesto apertamente alle federazioni nazionali di concentrarsi sul calcio lasciando da parte le questioni sociali. Il fatto che poi l’ex presidente Sepp Blatter (noto a sua volta per torbidi giochi di potere e per vari scandali con risvolti giudiziari) riconosca ora che la scelta del Qatar (compiuta sotto la sua presidenza) è stata un errore, beh, sa proprio di presa in giro.

Certo con il Mondiale di calcio “climatizzato” in Qatar pensavamo di aver toccato il fondo, in termini di manifestazioni sportive vergognosamente fuori luogo. Ma ancora non sapevamo che con le Olimpiadi invernali asiatiche in Arabia Saudita saremmo entrati in una dimensione distopica.

Infine, non si può ignorare la mancanza pressoché totale di tradizione calcistica del Qatar. Che senso possono avere questi Mondiali in una dimensione di politica interna ed estera per questo paese? Possono venire sfruttati in termini di posizionamento globale del paese in ottica strategica o geopolitica?

Secondo Hassan Al Thawadi, Segretario Generale del Committee for Delivery and Legacy (nome degno di un ministero del governo Meloni), i Mondiali porteranno all’economia del Qatar un indotto di circa 20 miliardi di dollari, pari all’11% del PIL pre-Covid. Ciò che Al Thawadi non ha spiegato è quanto il Qatar ha speso per realizzare la manifestazione e soprattutto per aggiudicarsela, ossia quante mazzette sono state distribuite a dirigenti FIFA e faccendieri vari per convincerli della bontà della candidatura.

Al di là di slogan e speculazioni, comunque, per paesi come il Qatar questi eventi hanno una proiezione quasi esclusivamente esterna, tanto regionale quanto globale. Certo, qualche danaroso residente di Doha sarà contento di poter andare allo stadio dietro casa a vedere dal vivo i campioni del calcio mondiale senza la scocciatura di salire sul jet privato per andare allo stadio in Europa, e può darsi persino che qualcuno dei pochi cittadini autoctoni (meno del 15% sul totale della popolazione) sia orgoglioso di vedere una grande manifestazione approdare sulle coste qatariote, ma a differenza di Paesi come Russia e Brasile il regime non ha bisogno di armi di “distrazione” di massa come gli eventi sportivi per accrescere il proprio consenso (potendo peraltro contare, a questo scopo, sulle enormi rendite di gas e petrolio). Insomma, per il regime il Mondiale ha una funzione puramente geopolitica: quella di mostrare il Qatar ai governi, ai turisti e (soprattutto) agli investitori stranieri come un Paese moderno, aperto, ricco di intrattenimenti, mirabolanti centri commerciali e bellezze naturali esotiche (o quel che ne resta). Il Campionato mondiale di calcio 2022 si inserisce nel solco di una serie di piccole e grandi iniziative volte al rilancio infrastrutturale e turistico del Paese, e al contempo si inscrive in una più vasta strategia geopolitica volta al riavvicinamento con le altre potenze sunnite della regione (in primis Arabia Saudita, Emirati ed Egitto). In questo senso va interpretata – ad esempio – la richiesta che i leader dei Fratelli Musulmani, tradizionalmente protetti dal Qatar, abbandonino il Paese. Certo questo stride con le accuse da tempo rivolte da eminenti personalità religiose qatariote ai correligionari (sunniti) di essersi aperti acriticamente ai valori occidentali, ma non è detto che le autorità politiche e quelle religiose siano sulla stessa lunghezza d’onda.

Infine, non va trascurata la dimensione puramente “ludica” della faccenda: per l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani, proprietario del Paris Saint-Germain, portarsi il Mondiale in casa è forse anche un semplice sfizio personale. Uno sfizio che uno degli uomini più ricchi al mondo può permettersi.

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Redazione
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