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“Prima che chiudiate gli occhi”: una storia sinta. Intervista a Morena Pedriali Errani

Il 27 ottobre è uscito per Giulio Perrone Editore Prima che chiudiate gli occhi, primo libro di Morena Pedriali Errani, artista circense e attivista ferrarese membro del Movimento Kethane, Rom e Sinti per l’Italia. Il libro racconta le vicende di una famiglia sinta che vive nel nostro paese durante il ventennio fascista. La storia di questo nucleo familiare si intreccia inesorabilmente con quella italiana, con le prime persecuzioni verso rom e sinti e la loro cultura. Gli eventi narrati, che ripercorrono quelle familiari dell’autrice, sono inframmezzati da alcuni racconti della tradizione attraverso la voce del vento, vero e proprio co-protagonista del libro. L’autrice, con una scrittura spesso evocativa ma mai stucchevole e noiosa, ci racconta però anche dell'altra faccia della medaglia: quella del protagonismo della comunità rom e sinti, della sua partecipazione alla Resistenza e alla lotta al fascismo, del prezzo pagato per questa presa di posizione netta e coraggiosa. Abbiamo parlato di questo e altro con l’autrice, in un’intervista che riportiamo di seguito.
Il libro racconta la storia di una famiglia sinta che vede materializzarsi alcune delle più grandi tragedie del Novecento: le persecuzioni razziali durante la dittatura fascista. Cosa ti ha spinto a ripercorre alcune vicende familiari e trasformarle in un romanzo?

Diciamo che il libro è nato come una necessità. In primis una necessità di ricordare, perché il libro è ispirato alla figura di mia nonna e avevo la necessità di raccontare la sua storia. Al tempo stesso, attraverso la figura della protagonista e della sua famiglia, volevo ripercorrere, essendo io stessa sinta, quella che è stata la storia di tutte le famiglie rom e sinte in Italia. Sono storie anche molto diverse tra loro. I rom stavano principalmente tra Centro e Sud, liberati prima dal fascismo, mentre i sinti al Nord. Volevo che questo libro fosse un po’ come una pluralità di storie.

Per scriverlo ho ripreso sia storie raccontate a me personalmente dai miei familiari sia storie riprese da testimoni, sinti in particolare, di famiglie che conosco e che sono state internate all’interno di campi di concentramento fascisti italiani solo per rom e sinti. Sottolineo fascisti perché spesso si usa la scusa, per giustificarsi e non riconoscere appieno il nostro genocidio, che l’Italia è stata solamente complice, mentre in realtà il genocidio di rom e sinti parte proprio dall’Italia. Nel nostro paese si veniva fermati e schedati già prima del popolo ebraico in Germania. L’Italia è stata l’autrice principale di questi crimini. In sostanza, quindi, volevo raccontare una pluralità di storie diverse che però alla fine sono tutte la stessa Storia. Il tema della resistenza, ad esempio, nelle nostre famiglie è molto ricorrente perché tutte hanno avuto un parente partigiano.

Proprio su questo tema, nel tuo libro il popolo sinti e rom non appare solo come vittima della Storia ma anche come agente. Come Jezebel, la protagonista del tuo libro, che decide di aderire alla lotta partigiana durante il fascismo. Un contributo, quello di sinti e rom, ancora oggi troppo poco conosciuto. Qual è stato il loro ruolo nella Resistenza?

Quando si parla di rom e sinti si parla sempre di un popolo vittima di persecuzioni. Però se si va a studiare la storia ci si rende conto che in realtà noi siamo sempre stati resistenza. Durante la Seconda guerra mondiale sono state tantissime le famiglie sinte che si sono unite alla resistenza. Come dico nel libro, i campi di concentramento vengono aperti nel 1940, poi c’è una breve pausa nel 1943 quando cade il regime fascista. Questi campi vengono prima chiusi e poi però riaperti. In quel breve periodo in cui vengono chiusi, rom e sinti riescono a scappare, solo che non possono girare per strada come se niente fosse e quindi si uniscono alla resistenza. Tra l’altro – nel libro non l’ho scritto – rom e sinti hanno anche una storia di rivolta ad Auschwitz.

È stato quindi sia per una necessità di sopravvivenza che per un voler credere a un nuovo mondo che sarebbe stato ospitale anche verso di loro, che poi purtroppo non si è realizzato. C’era però questo ideale comune. Quando parlo di resistenza non mi riferisco solo alla lotta armata ma anche come atto quotidiano. Basti pensare che siamo riusciti a portare avanti la nostra cultura per 600 anni e che continuiamo a parlare la nostra lingua malgrado sia a rischio di estinzione. Secondo me sono piccoli atti di resistenza che portiamo avanti tutti i giorni. Se pensiamo che rom e sinti sono stati un popolo perseguitato ma che, nonostante tutto, abbiano dato al mondo il circo, le giostre, le arti, la musica, credo sia comunque un atto di resistenza molto potente.

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Un filo rosso che lega le pagine del libro è la sfiducia tra due mondi, quello dei sinti e quello dei gagè (i “non rom”) frutto di paure e incomprensioni. Ci troviamo di fronte a due parti che difficilmente riescono a comunicare tra loro e anche quando lo fanno non sempre riescono a comprendersi. Perché? Cosa li tiene così distanti?

Secondo me quello che li tiene distanti oggi è che la società maggioritaria non si è mai resa conto di ciò che ha fatto a rom e sinti. Perché, se da parte nostra c’è non tanto una sfiducia ma una paura verso l’esterno che è legata proprio a una questione di sopravvivenza, visto che la nostra è una storia di persecuzioni, dall’altra c’è anche tanta voglia di raccontarsi. Tant’è che quando parlavo alla comunità del mio libro che stava per uscire molte persone erano interessate a leggerlo, erano proprio commosse dal pensare che finalmente qualcuno volesse ascoltarle. Ti direi che un buon punto dal quale partire sarebbe quello di riconoscere l’esistenza della minoranza rom e sinta a livello legale, che sappiamo essere il nodo di tutta la questione, ma anche riconoscere quello che è stato fatto nel tempo a questa comunità.

Molto spesso vedo che c’è una tendenza dall’esterno a voler dialogare subito, mentre quello che bisognerebbe fare prima di tutto è ascoltare, cosa che non è mai stata fatta. C’è gente che magari sa cosa sia uno “zingaro” ma non sa cosa sia veramente un rom o un sinto. Se c’è sfiducia non è tanto perché è impossibile che ci sia questo incontro tra i due mondi – io stessa sono figlia di una gagi e di un sinto, quindi è ovvio che può avvenire – ma manca da parte della società esterna, dei gagè, la volontà di fare i conti con ciò che è stato. Io dico sempre che è un po’ come quando si parla del fascismo e di come l’Italia non abbia affrontato il suo passato, ed è il motivo per cui è ancora tra noi. In particolar modo su rom e sinti non c’è mai stata la volontà di riconoscere ciò che è stato fatto.

La bandiera sinti ad Auschwitz nell’ambito del progetto “Promozione e diffusione della cultura Rom, Sinti e Caminanti” promosso da Unar (Unar)
Un elemento che fa da sfondo a tutta la storia è il vento. Cosa rappresenta nella cultura sinta il vento? Perché è così importante?

Il vento per noi sono gli antenati, nel senso che da noi c’è questa credenza che quando un sinto si spegne in realtà non muore veramente, muore solo il suo corpo terreno, mentre il suo spirito torna al vento da cui tutti noi veniamo. Il vento simbolicamente rappresenta gli antenati che noi possiamo chiamare e richiamare, semplicemente ascoltandolo, e che soprattutto sono intorno a noi sempre. Nel libro gli intermezzi parlano un po’ più nello specifico del vento, come se fossero gli antenati a raccontare e a portare avanti questo filo conduttore a fianco della protagonista che racconta cosa vive lei in prima persona, mentre loro, gli antenati, hanno forse una panoramica più ampia. Quindi sì, il vento simboleggia questo, gli antenati e attraverso loro tutto il passato e la storia sinta e tutto ciò che è successo.

Oggi non esistono più le leggi razziali e i campi di concentramento, anche se esistono ancora campi le cui condizioni non sono certo delle migliori. Verso sinti e rom continuano comunque a esistere pregiudizi e paure ancora molto forti. Da attivista e membro della comunità, quale pensi che sia la condizione attuale del popolo rom nel nostro paese e cosa potrebbero fare sia il popolo rom sia il resto della società?

C’è uno studio dell’Università di Harvard che analizzava il livello di ostilità nei vari paesi europei nei confronti della presenza di rom e sinti e l’Italia era al primo posto, nonostante sia uno dei paesi in cui la presenza della comunità sia tra le più basse (lo 0,2% della popolazione, pari a 180mila persone circa). La situazione è emergenziale soprattutto a livello abitativo, abbiamo circa 20mila persone in stato di emergenza abitativa.

L’Italia è particolare in Europa proprio per questa situazione dei campi. Poi ovviamente quando si parla di campi bisogna anche vedere, perché sono regolati da leggi regionali, quindi ogni regione può fare quello che vuole e ci sono anche situazioni molto diverse. Ad esempio, ci sono campi come quelli di Roma dove non c’è nessun tipo di servizio, una situazione molto difficile da un punto di visto di sopravvivenza per le condizioni igienico-sanitarie, mancanza di elettricità, di persone che si vedono negato l’accesso al lavoro e che quindi fanno fatica a sopravvivere.

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Mentre poi ci sono altre realtà che sono i villaggi che dovrebbero, in teoria, essere dei campi strutturati con tutti i servizi. Si parla sempre di superamento dei campi, come previsto dal “piano Rom” partito dalla sindaca Raggi e poi esteso in tutta Italia, che vuole eliminare i campi nomadi ma senza trovare una soluzione alternativa, buttando quindi la gente in strada e andando ad alimentare i campi abusivi. Se ti mandano via da un campo formale, riconosciuto dalle istituzioni, cosa fai? Vai a costruire un campo informale. In generale non esiste un campo in condizioni ottimali.

Poi c’è il problema dell’odio percepito, anche perché la minoranza rom e sinta è quella più discriminata e quella più silenziata. Anche le discriminazioni e i soprusi che viviamo vengono silenziati. Come nel caso delle borseggiatrici di Milano, che per noi è stato tragico perché abbiamo subito degli attacchi fisici, anche a persone socializzate, riconosciute dalla comunità non rom. Nessuno ha denunciato il fatto, non è uscito fuori da nessuna parte se non all’interno della nostra comunità. Vedo però che c’è un attivismo che sta andando avanti in maniera molto veloce.

Comparando le situazioni di attivismo dentro e fuori la comunità c’è un livello di consapevolezza diverso, proprio per il fatto che se sei un/a attivista rom e sinto lo sei anche per necessità. Quello che noi possiamo fare lo stiamo già facendo, con i nostri limiti che però sono sempre dati dalla situazione in cui viviamo, dai pochi mezzi che abbiamo, dal fatto che non riusciamo a raggiungere canali mainstream per far vedere e conoscere le nostre lotte perché veniamo silenziati.

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Quello che può fare il mondo fuori è sostenere un cambiamento politico, una modifica delle leggi sui campi, ad esempio, e soprattutto il riconoscimento di minoranza etnica alla comunità rom e sinta, che non è un riconoscimento simbolico tipo pacca sulla spalla, ma è lo Stato che si impegna a tutelare la minoranza e risolvere i problemi, come l’emergenza abitativa, promuovere l’arte, la cultura e riconoscere il nostro Olocausto e il ruolo primario avuto dall’Italia. Quello che possono fare gli attivisti, che ovviamente non hanno il potere di cambiare le leggi, è lottare insieme a noi affinché questo avvenga. È proprio il punto di partenza. Ci sarebbero tantissime altre lotte da fare per la nostra comunità, ma questa è quella da cui partire.


Prima che chiudiate gli occhi di Morena Pedriali Errani, Giulio Perrone Editore, 2023.

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Marco Siragusa
Marco Siragusa

Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.