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Slobodan Milošević e Aleksandar Vučić (Elaborazione grafica/Meridiano 13)
“Gotov je” (“E’ finito”)
Così gridavano il 5 ottobre 2000 i manifestanti che assaltarono il parlamento di Belgrado costringendo alla fuga Slobodan Milošević. Quel giorno si chiudeva un decennio di guerre, scontri ideologici e profonde trasformazioni sociali. Oggi, nuove proteste in Serbia, considerate le più grandi da allora, stanno scuotendo le basi del sistema di potere costruito dal presidente Aleksandar Vučić. Tra le due mobilitazioni e i loro protagonisti politici non mancano i punti in comune, anche se le differenze restano sostanziali.
Un passato comune
In quei giorni di ottobre, l’attuale presidente serbo Aleksandar Vučić aveva appena trent’anni. Eppure, ricopriva già dal 1998 il ruolo di ministro dell’Informazione nell’ultimo governo guidato da Mirko Marjanović con Milošević Presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia.
La sua carriera politica inizia nel 1993 quando, dopo aver lavorato come giornalista a Sarajevo, entra a far parte del Partito Radicale Serbo di Vojislav Šešelj, fortemente nazionalista ed erede del movimento monarchico dei cetnici. In poco tempo riesce a scalare le gerarchie del partito e del governo, diventando ministro.
Porta la sua firma uno degli atti più controversi dell’era Milošević: la legge sull’informazione pubblica del 1998. La norma imponeva una forte censura nei confronti dei mezzi di informazione contrari al governo e alle sue politiche riguardanti il Kosovo e i rapporti con la comunità internazionale.
Seppur giovane, Vučić aveva poi dovuto gestire crisi delicate come il bombardamento NATO della Radio Televisione Serba dell’aprile 1999 e un ciclo crescente di proteste contro la corruzione, le privatizzazioni selvagge e la censura dei media.
Venticinque anni dopo, Vučić è presidente della Repubblica dopo aver ricoperto la carica di primo ministro dal 2014 al 2017. In questi anni è riuscito a costruire un nuovo sistema di potere, fatto di clientele, affari spesso poco trasparenti e svendita del territorio a grandi investitori. Anche su questo punto le similitudini tra i due periodi sono tante.
Oggi, il paese è preda di speculatori nazionali e internazionali, pronti a mettere le mani su grandi progetti infrastrutturali, energetici, immobiliari. Non molto diverso da quanto accadde negli anni Novanta con Milošević. La legge sulle privatizzazioni del 1991 aveva infatti favorito l’emergere di una nuova classe imprenditoriale, fedele al presidente, pronta a fagocitare le aziende pubbliche. Il tutto protetto, oggi come allora, da un forte controllo sui media. Una delle accuse più diffuse rivolte all’attuale presidente serbo, sia in patria che all’estero, riguarda proprio la scarsa libertà dei media nel paese e gli ostacoli al lavoro dei giornalisti.
Contesti diversi
Quello che è cambiato è stato soprattutto il contesto in cui i due sistemi di potere si sono sviluppati. Nel 2000, la Serbia di Milošević veniva da tre guerre: prima quella contro Croazia e Bosnia tra il 1992 e il 1995, poi quella in Kosovo del 1998-99 e infine l’operazione NATO del 1999 contro ciò che restava della Jugoslavia. Un decennio in cui la transizione dal socialismo cominciò a manifestare i suoi effetti peggiori: svendita delle aziende pubbliche, aumento dei prezzi, salari bassi e licenziamenti.
Oggi, la Serbia vive una fase avanzata di turbocapitalismo, con un economia in espansione incapace però di eliminare le profonde diseguaglianze in termini di reddito.
Altra differenza sostanziale riguarda la capacità dell’opposizione di presentarsi come alternativa credibile. Milošević dovette fare i conti con un’opposizione che, soprattutto dopo la guerra del 1992-95, era riuscita a organizzarsi unitariamente in una coalizione, denominata Zajedno (Insieme), in grado di includere sindacati di ispirazione liberale, docenti universitari, economisti, partiti politici (in parte anche nazionalisti) e studenti che animavano le piazze con imponenti manifestazioni.
La Serbia di Vučić viene invece da un decennio in cui le opposizioni hanno perso qualsiasi credibilità, incapaci di offrire una reale alternativa politica. Non è un caso che nessuno dei partiti di opposizione sia riuscito a egemonizzare le proteste della società civile degli ultimi anni che, a causa di una profonda disaffezione e mancanza di fiducia, rifuggono da qualsiasi compromesso con le attuali forze parlamentari.
Una delle proteste in Serbia nel 1996 con lo striscione di apertura che recita “Belgrado è il mondo” (Legende devedesetih/Facebook)
Le ingerenze estere
Sul piano internazionale, Milošević poteva contare solo su Cina e Russia, allora entrambe ai margini dello scacchiere internazionale. La guerra, al momento, è un ricordo e le relazioni con Cina e Russia giocano un peso maggiore rispetto a trent’anni fa. In più, Vučić può contare sul sostegno, almeno formale, dell’Unione Europea al processo di adesione di Belgrado. L’attuale presidente sembra voler ripercorrere la politica multilaterale di Tito piuttosto che quella di Milošević, mostrandosi capace di interloquire e fare affari con tutti gli attori globali. Vučić si distingue quindi da Milošević per un approccio più pragmatico che ideologico, in grado di tenere il paese in equilibrio tra poli opposti.
Anche in tal senso, le differenze tra i due periodi storici risultano evidenti. Negli anni Novanta l’Occidente si schierò, quasi unanimamente, contro la Serbia imponendo dure sanzioni economiche e intervenendo anche militarmente. Milošević, soprattutto dopo il 1995, veniva considerato come un ostacolo al definitivo raggiungimento della pace nella regione. Da parte sua, il “macellaio dei Balcani”, come veniva spesso chiamato, si ostinò a combattere una dura battaglia contro i nemici interni ed esterni. Negli ultimi anni aveva dovuto fronteggiare anche le influenze euro-atlantiche volte a sostenere gli oppositori, attraverso sostegni economici e formazione di nuovi quadri politici, e favorire un cambio di governo.
Oggi, il paese non è più isolato ma al centro di una fitta tela di alleanze: dalla Russia all’Europa, da Israele ai paesi del Golfo, passando per la Cina.
I soldi provenienti dall’Europa non sono più destinati a sostenere i manifestanti ma a garantire al governo un supporto economico per proseguire nella transizione verso il modello neoliberista europeo e adottare le riforme economiche richieste per l’adesione all’Ue.
Dall’altro lato, la Russia e soprattutto la Cina hanno notevolmente aumentato in questi decenni il loro peso specifico sul piano internazionale e sono diventati alleati imprescindibili per Belgrado, sia dal punto di visto politico (entrambi i paesi non riconoscono l’indipendenza del Kosovo) quanto soprattutto su quello economico con un aumento significativo degli scambi con Pechino e degli investimenti cinesi nel paese.
Il filo rosso che accomuna la Serbia di Milošević e quella di Vučić è la partecipazione degli studenti alla vita politica del paese. Nel 1998 alcuni studenti dell’Università di Belgrado diedero vita al movimento studentesco Otpor! (Resistenza). È ormai di dominio pubblico il legame con forze esterne, dal miliardario Soros alle ONG europee e statunitensi, interessate a favorire l’opposizione al governo attraverso finanziamenti diretti, acquisto di materiali come pc e telefoni, e formazione politica. Gli studenti contestavano il mancato riconoscimento della vittoria dell’opposizione alle elezioni locali ma soprattutto la repressione messa in atto dal governo, la corruzione diffusa e le difficoltà economiche.
Il parlamento serbo in fiamme durante la manifestazione del 5 ottobre 2000 (Wikipedia)
Le proteste degli ultimi anni ripercorrono in parte la stessa strada. Nate a partire dal 2022 contro il progetto urbanistico del Belgrade Waterfront che ha trasformato profondamente una parte considerevole della città, diventata ormai un quartiere di lusso inaccessibile alla stragrande maggioranza della popolazione, le critiche mosse al governo riguardano la poca trasparenza con cui vengono prese le decisioni, la gestione clientelare dell’economia, lo sfruttamento privatistico dello spazio urbano, la corruzione che attraversa tutti i settori della società e la scarsa libertà di stampa, con il controllo quasi totale dei media da parte del governo.
La differenza tra i due movimenti è quella, già citata della loro rappresentanza politica. Se Otpor! e in generale il movimento studentesco degli anni Novanta poteva contare in una sponda dei neonati partiti politici, il movimento studentesco che sta letteralmente bloccando il paese da ormai un anno non può far affidamento su nessuno schieramento, nonostante i tentativi di alcuni partiti di “mettere il cappello” alle proteste.
Se a mancare è la forza dei partiti, chi invece non fa venir meno il proprio sostegno agli studenti sono ampi settori della popolazione, dai lavoratori dell’agricoltura ai docenti universitari. Anche da questo deriva la forte eterogeneità delle piazze di oggi. Tra i manifestanti sono infatti presenti frange progressiste e di sinistra, ma anche convinti nazionalisti e ferventi ortodossi.
Quello che manca, a differenza degli anni Novanta, è l’aperto sostegno dei paesi e delle istituzioni europee. In questo ultimo anno infatti, non vi è stata nessuna presa di posizione netta contro il governo, se non qualche timido richiamo alle regole democratiche. Questo perché Vučić è ancora oggi considerato dalle cancellerie europee come il più importante elemento di stabilità per il paese e la regione balcanica. Volere una sua caduta significherebbe permettere alla Serbia di ripiombare in un limbo politico dagli effetti imprevedibili. Un rischio che nessuno in Europa vuole correre. Una distanza dimostrata anche dalle piazze: non è infatti un caso che nelle manifestazioni non siano presenti bandiere europee.
Eppure, il presidente Vučić continua a utilizzare toni vittimisti paventando non meglio precisate ingerenze esterne interessate a riportare nel paese incertezza e caos.
Proteste in Serbia: un “nuovo 5 ottobre”?
Al momento, il crescente malcontento espresso dalle piazze serbe, sempre più partecipate e diffuse, non sembra aver scalfito in maniera significativa il governo e più in generale il sistema di potere di Vučić. Nonostante le difficoltà nel fronteggiare le piazze, dimostrato anche dalla forte repressione e dall’innalzamento del livello dello scontro tra manifestanti e polizia, il governo continua dritto per la sua strada anche a causa di una inefficace opposizione parlamentare.
La manifestazione del 28 giugno 2025, considerata la più grande dai tempi di Milošević (AP/Youtube)
Gli studenti, riuniti in assemblee autorganizzate, chiedono l’indizione di nuove elezioni politiche a cui vogliono partecipare con una propria lista indipendente da qualsiasi partito o esponenti politici già noti. Una scelta che al momento appare l’unica praticabile se si vuole ricostruire da zero un’opposizione credibile e capace di influenzare la politica serba. E se si vuole vincere le elezioni. Cosa che non è riuscita neppure alla coalizione elettorale, che potremmo definire di centrosinistra, “La Serbia contro la violenza” nelle elezioni del 2023.
In questa fase, appare quindi difficile un “nuovo 5 ottobre”. A differenza di allora non esiste un’alternativa valida, Vučić gode del sostegno europeo e delle altre potenze globali e può inoltre rivendicare dati macroeconomici positivi. Questo non significa che il movimento non possa continuare a crescere ma per vincere è necessario un passaggio organizzativo e programmatico ulteriore. Senza questo, Vučić continuerà a governare il paese seguendo gli interessi propri e del suo cerchio magico.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.