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I bunker in Albania: il militarismo paranoico di Enver Hoxha

Sono numerose le linee difensive costruite nei millenni dall’uomo e passate alla storia per la loro imponenza: dalla Grande Muraglia cinese (8.850 km) al Limes germanico dell’Impero romano (548 km), dalla Linea Maginot (400 km) del Terzo Reich ai 175 mila bunker in Albania.

Sì perché, nonostante non fosse certo un impero, nel recente passato anche la piccola Albania ha sentito la necessità di costruire una mastodontica struttura difensiva. A partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento, infatti, la sua guida Enver Hoxha elaborò un piano per la costruzione di circa 700mila bunker da disseminare in tutto il paese per proteggerlo dai nemici pronti a invaderlo. Un progetto frutto della paranoia e di una sindrome dell’accerchiamento che, ancor più dalla fine degli anni Settanta, avrebbe influenzato il mancato sviluppo della società albanese.

In cerca di alleanze: Jugoslavia e Urss

Al potere ininterrottamente dal 1944 al 1985, Segretario del Partito del Lavoro e guida indiscussa dell’Albania, Enver Hoxha cambiò più volte il proprio punto di riferimento all’interno del blocco comunista. Dopo aver tentato di avvicinare il paese alla Jugoslavia, tanto da paventare l’ipotesi di trasformarlo nella “settima repubblica” jugoslava, le strade tra i due paesi si divisero molto presto.

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Quando, nel 1948, Belgrado venne espulsa dal Cominform per divergenze con Mosca, l’Albania si schierò con l’Unione Sovietica mostrandosi come uno dei più fedeli alleati di Iosif Stalin. Dopo la morte del leader sovietico, la conseguente destalinizzazione e l’aggravarsi della divisione con la Cina, Tirana entrò in contrasto anche con il Cremlino, interrompendo le relazioni nel 1961 e rivolgendo le sue attenzioni all’altro grande paese comunista: la Cina di Mao Zedong.

Il periodo cinese

In cambio del suo sostegno, Pechino supportò economicamente e militarmente il paese delle aquile, inviando migliaia di consiglieri e facendo confluire sostanziosi investimenti e aiuti militari per quasi due decenni. Fu proprio grazie a una Risoluzione presentata da Tirana alle Nazioni Unite che nel 1971 la Repubblica Popolare Cinese venne riconosciuta come l’unico rappresentante legittimo della Cina a scapito di Taiwan.

Anche questa volta, però, Hoxha si sentì tradito dall’alleato che aveva deciso di intraprendere un nuovo corso nelle relazioni con i nemici di sempre: gli Stati Uniti. Esattamente come già successo con l’Unione Sovietica dopo la morte di Stalin, la scomparsa di Mao Zedong nel 1976 e il superamento della Rivoluzione Culturale crearono i presupposti per la fine delle relazioni tra Pechino e Tirana, concretizzatasi nel 1978 con la decisione cinese di interrompere definitivamente i programmi di aiuto all’Albania.

La bunkerizzazione della società

Quando i carrarmati sovietici entrarono in Cecoslovacchia nel 1968, i rapporti tra Mosca e Tirana erano deteriorati ormai da tempo, tanto che Hoxha decise di non partecipare all’operazione sostenuta dai paesi del Patto di Varsavia. La decisione portò all’inevitabile uscita del paese dal Patto. E proprio da quel momento la paura per una possibile invasione straniera cominciò ad ossessionare il leader albanese secondo cui la minaccia, mai concreta, poteva provenire dalla vicina Jugoslavia, dall’ex alleato sovietico o da uno dei paesi capitalisti.

Bunker costruito sul lago di Ocrida (Meridiano 13/Gianni Galleri)

Ormai completamente travolto da una sorta di mania di persecuzione, Hoxha e gli apparati militari elaborarono un piano difensivo che prevedeva l’addestramento militare di tutto il popolo albanese, secondo la dottrina della “guerra popolare”, e la costruzione di una linea difensiva composta da circa 700mila bunker. Si calcola che di questi ne furono effettivamente edificati, anche grazie al materiale proveniente dalla Cina, tra i 150 e 200mila. Circa uno ogni dieci abitanti. Furono costruiti lungo le coste per proteggersi da un eventuale attacco marittimo, sulle montagne, lungo il confine nord con la Jugoslavia, all’ingresso delle città e persino al loro interno. I bunker incarnavano l’essenza perfetta della società albanese del tempo: piccoli, chiusi in sé stessi, impenetrabili dall’esterno.

Struttura dei bunker

Esistevano tre tipi di bunker in Albania: i Qendra Zjarri, prefabbricati e assemblati in loco, di dimensioni piuttosto ridotte progettati per ospitare uno o due soldati armati di fucile; i Pikë Zjarri, capaci di ospitare una decina di soldati o pezzi di artiglieria pesante; e i tunnel antiatomici, ben nascosti e che potevano ospitare anche aerei o un gran numero di uomini, specialmente gli apparati del partito.

Si calcola che la bunkerizzazione sia costata al paese circa il 2% del suo Pil e una quantità gigantesca di cemento, sottraendo risorse fondamentali per il suo ammodernamento e i servizi essenziali, come la costruzione di alloggi popolari.

Rifugi per gli emarginati

Il militarismo esasperato, incarnato dai bunker, si interruppe con la morte dell’autocrate nel 1985. Seguirono anni di timide aperture del sistema politico fino alla grave crisi economica e sociale che travolse il paese per tutti gli anni Novanta. In quel periodo i bunker si trasformarono spesso in case di fortuna per i senzatetto e i poveri, in stalle per gli animali nei villaggi di campagna, in piccoli luoghi di culto non ufficiali.

Interno di un bunker a Lin, sul lago di Ocrida (Meridiano 13/Gianni Galleri)

Un loro utilizzo per scopi militari si verificò solo a distanza di decenni dalla loro edificazione. Durante la guerra civile del 1997, nota come “anarchia albanese”, molti bunker furono utilizzati dai ribelli nel sud del paese. Pochi mesi dopo, durante la guerra in Kosovo del 1998-1999, furono invece i miliziani dell’Esercito di Liberazione del Kosovo e i rifugiati kosovari di etnia albanese in fuga dalla guerra ad utilizzarli come base logistica o riparo. Molti altri, specialmente quelli lungo le coste, furono invece rimossi o distrutti dal governo.

Arte, memoria e business

Tuttavia, negli ultimi anni, si è assistito a un crescente interesse nel recupero e nella conversione di questi simboli del passato come parte di un più ampio processo di rinnovamento urbano e di preservazione del patrimonio storico. Numerosi progetti hanno permesso di trasformare questi vecchi luoghi militari in nuove e innovative strutture, creando al loro interno attività commerciali, bar e piccoli ristoranti ma anche spazi culturali e musei.

L’esempio più famoso è senza dubbio rappresentato dal Bunk’Art 1 di Tirana, un museo della storia albanese del XX secolo ospitato nel più grande bunker antiatomico del paese destinato allo stesso Hoxha e ai membri del Politburo. Nato nel 2014 grazie al giornalista italiano Carlo Bollino e alla Ong Qendra Ura, il bunker contiene oltre 100 stanze, compresa una sala con 150 sedie che doveva fungere da parlamento di emergenza, in cui sono conservati documenti e oggetti del Novecento albanese. Stessa sorte è toccata ad un altro grande bunker che si trova nel centro della capitale, il Bunk’Art 2, nome in codice Objekti Shtylla, inaugurato nel 2016 e destinato ai membri del Ministero dell’Interno, unico luogo da cui era possibile accedere. Oggi è un museo dedicato alla polizia segreta Sigurimi. Entrambi i bunker sono ormai diventati tra le attrazioni turistiche più visitate di Tirana.

Bunker presente al Postbllok, memoriale nel centro di Tirana dedicato ai prigionieri politici (Fabio Disconzi)

Non sono però mancati aspetti critici associati al recupero dei bunker in tutto il paese. Alcuni ritengono che i fondi utilizzati per questi progetti potrebbero essere impiegati in modo più efficace altrove, per altri si corre il rischio di una commercializzazione eccessiva della storia e di una sua distorsione a fini turistici.

Paradossalmente, i bunker voluti da Hoxha mostrano tutta la loro utilità a distanza di decenni dalla loro costruzione. Completamente inutili a fini militari ed estremamente costosi in termini economici e materiali, queste strutture hanno comunque caratterizzato la storia dell’Albania e dei suoi abitanti che, dopo la morte dell’autocrate, hanno saputo dargli una nuova vita. Finalmente libera dal militarismo paranoico del suo vecchio leader.

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Marco Siragusa
Marco Siragusa

Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.