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Dalla prigionia alla libertà. Intervista a Mikola Dziadok, attivista anarchico bielorusso

di Claudia Bettiol e Francesco Brusa

Ascoltare le voci che provengono da Paesi dove il dissenso viene messo a tacere, aiuta a comprendere molto delle dinamiche interne di questi luoghi. Mikola Dziadok (1988) è una di queste voci. Non è solo un sopravvissuto, ma anche un testimone fondamentale dei meccanismi interni del potere autoritario bielorusso.

Mikola è uno scrittore, attivista anarchico ed ex prigioniero politico, il cui nome è diventato sinonimo di resilienza e del costo estremamente elevato che paga chi si oppone al regime bielorusso. La sua storia – una doppia storia di prigionia – è stata scritta dietro le sbarre, dove Mikola ha potuto documentare la brutalità del sistema penale bielorusso. Le sue memorie, The Colours of the Parallel World (pubblicate dopo il suo primo periodo di detenzione), tratte da appunti scritti segretamente in prigione, offrono un resoconto crudo e senza precedenti delle torture psicologiche e fisiche volte a spezzare lo spirito umano. 

In seguito al suo arresto, avvenuto cinque anni fa, Mikola è stato rilasciato l’11 settembre scorso insieme ad altri 51 prigionieri (la maggior parte dei quali prigionieri politici e alcuni cittadini stranieri) nell’ambito di un più ampio “accordo” tra la Belarus’ e gli Stati Uniti. In cambio, Washington ha revocato alcune sanzioni contro lo Stato governato da Aljaksandr Lukašenka. I rilasciati sono stati tutti “deportati” presso l’ambasciata americana a Vilnius, in Lituania, ad eccezione del leader di una delle forze politiche dell’opposizione, Mikola Statkevič, che ha deciso di tornare in Belarus’ attraversando il confine, azione che ha comportato per lui un rischio significativo. 

Dziadok, attualmente a Vilnius, è una fonte primaria di testimonianze dirette sull’uso sistematico della tortura e della repressione politica in Belarus’. Il dialogo con lui permette di approfondire il funzionamento di un regime che è diventato un alleato chiave della Russia nella guerra in Ucraina e una sfida continua alla sicurezza europea.

Un paio di settimane fa, durante la prima conferenza stampa a Vilnius avvenuta subito dopo il tuo rilascio, hai parlato delle condizioni carcerarie in Belarus’. Hai affermato, in particolare, di essere rimasto scioccato dalla portata della repressione sia nelle carceri che in tutta la Belarus’. Puoi raccontarci qualcosa di più sulla tua esperienza personale?

Partiamo dall’inizio. Sono stato arrestato l’11 novembre 2020 dopo cinque mesi di latitanza. Sono stato perquisito dal GUBOPiK, il dipartimento della polizia bielorussa che si occupa dei cosiddetti “estremisti”, e durante l’arresto e nelle ore successive sono stato sottoposto a pesanti torture. All’inizio la situazione è stata dura, con percosse prolungate, spray al peperoncino, minacce di violenza sessuale, pratiche di ammanettamento e soffocamento. Sono stato sottoposto a tutto questo per sei ore perché volevano che fornissi le password dei miei account e dei miei dispositivi e che confessassi davanti alla telecamera.

Ho resistito finché ho potuto, mi sono astenuto dal firmare o fare quello che mi chiedevano, ma poi ho ceduto e fornito le informazioni richieste. Sono poi stato trasferito. Mi hanno legato e semi-coperto in volto, ma il personale del centro di detenzione si è rifiutato di accogliermi, così sono stato riportato nel luogo dove tutto era iniziato. Sono rimasto lì altri sei giorni affinché i segni delle percosse diventassero meno visibili e le mie condizioni migliorassero leggermente.

Durante i miei cinque anni di prigionia le condizioni passavano da pessime a più o meno normali, e viceversa. In generale, sin dall’inizio, l’amministrazione penitenziaria ha impiegato strategie diverse, tra cui lo sfruttamento di altri detenuti e le sottoculture informali carcerarie, con l’obiettivo di opprimere non solo me, ma anche tutti gli altri prigionieri politici. Hanno cercato di metterci contro boss criminali e detenuti comuni, sottoponendoci a una serie di pratiche intimidatorie che includevano torture morali, aggressioni fisiche e intimidazioni.

Inoltre, hanno utilizzato un meccanismo chiamato “basso status sociale”, una caratteristica distintiva dei gulag e delle prigioni post-gulag nei sistemi penitenziari post-sovietici. In sostanza, all’interno di questo sistema, i detenuti sono divisi in una serie di caste, che non consentono alcun avanzamento di status. È possibile passare solo a una casta inferiore, e le caste più basse sono generalmente associate alle persone omosessuali, periodicamente oggetto di molestie sia morali che fisiche e trattate come degli emarginati: non possono sedersi con le altre persone e sono sistematicamente interrogate e punite.

Far parte di questa casta è una sfida difficile e molte persone commettono suicidio. L’amministrazione penitenziaria di solito riceve istruzioni da autorità superiori, come il KGB e il GUBOPiK, che spingono con ogni mezzo ad attribuire lo status di casta inferiore ai prigionieri politici, me compreso.

Un’altra esperienza piuttosto comune sono le celle d’isolamento, in cui si dorme su un’asse che si apre e chiude a scatto dal muro a orari prestabiliti e che dunque rende impossibile stendersi e riposarsi durante le ore diurne. Ma, durante le ore notturne, è altrettanto difficile prendere sonno per via dal freddo. Devi alzarti almeno tre o quattro volte per fare dei piegamenti o delle flessioni in modo da riscaldarti.

Secondo la legge, non è possibile stare in queste celle per più di quindici giorni, ma la verità è che ti lasciano lì anche per mesi e, in particolare, i prigionieri politici vi vengono rinchiusi sistematicamente per lunghi periodi. Il lasso di tempo maggiore che vi ho passato io è di quattro mesi, ma in totale ci sarò stato circa un anno sui miei cinque di detenzione. 

Poi, chiaramente, ci sono altre forme di pressione che hanno a che fare con le procedure legali: per esempio, ti impediscono di scrivere o ricevere lettere da parenti e conoscenti, ti isolano da qualsiasi contatto con l’esterno. Penso si possa dire senza ombra di dubbio che in Belarus’ i prigionieri politici costituiscono una categoria speciale, esplicitamente etichettata a livello visivo (vengono infatti posti dei segni gialli sulle loro uniforme), continuamente bistrattata e attaccata.

mikola dziadok
Avevi già descritto il sistema carcerario bielorusso nel tuo libro, The Colours of the Parallel World, scritto però fra il 2010 e il 2015 durante il tuo primo periodo in prigione, e poi pubblicato nel 2017. Diresti che da quell’epoca le condizioni sono cambiate e che le grandi proteste del 2020 hanno spinto Lukašenka a inasprire l’intero apparato repressivo?

Assolutamente, le condizioni sono diventate molto più dure rispetto a quanto ho descritto nel mio libro. All’epoca, noi prigionieri politici venivamo perlopiù considerati dissidenti e attivisti locali, non rappresentavamo per il regime una minaccia immediata e letale. Nel 2020, invece, si era creata una situazione esplicitamente rivoluzionaria, che ha spinto lo Stato bielorusso a imporre misure molto dure sui prigionieri, specialmente sui prigionieri politici, per intimidirli il più possibile.

Oggi conosciamo anche i numeri: sono almeno otto i prigionieri politici morti dal 2020. Ma devo anche sottolineare che solo una piccola minoranza di questi è morta a causa di violenze dirette: la maggior parte dei decessi è avvenuta per l’assenza o il ritardo con cui è giunta l’assistenza medica. Sono cioè morti per ferite o malattie potenzialmente curabili.

Quest’anno ha segnato il quinto anniversario delle proteste del 2020 contro il regime di Lukašenka e, com’è ovvio, il paese è cambiato nel frattempo. Dopo la tua liberazione, com’è cambiato il tuo punto di vista rispetto alla lotta politica per la democrazia in Belarus’? Come vedi la situazione dei prigionieri politici oggi?

Mi sento di dire che il modo in cui concepisco la lotta politica non ha subito cambiamenti radicali. Voglio dire, sono ancora un anarchico. Continuo a credere in una società senza sfruttamento, violenza e in cui non ci sia il dominio di un essere umano su altri esseri umani. Allo stesso tempo, mi confronto con le condizioni reali in cui ci troviamo. Oggi è impossibile non notare che siamo tutti migranti al di fuori del nostro paese. Non possiamo perciò influenzare in maniera diretta la situazione politica in Belarus’, non almeno come vorremmo, e dipendiamo fortemente dai nostri alleati occidentali nei paesi che ci hanno accolto.

Date queste condizioni, credo che dobbiamo fare tutto il possibile: innanzitutto, preservare l’unità del movimento, portare la questione della Belarus’ all’attenzione delle organizzazioni internazionali, negli ambienti diplomatici, presso gli uffici che si occupano di affari esteri e in generale gettare luce a livello di comunità internazionale su tutte le problematiche che riguardano il nostro paese, dai diritti umani alla lotta per la democrazia.

Forse, rispetto alle mie precedenti visioni politiche, posso dire di non credere come prima nella rivoluzione e nella lotta politica violenta come metodi per cambiare la società. Credo molto di più nell’obiettivo di cambiare la mentalità delle persone piuttosto che modificare le istituzioni politiche. In termini filosofici, potrei dire di essere infine approdato a una posizione idealista, per quanto riguarda l’eterno conflitto fra idealismo e materialismo.

Mi sento al cento per cento un idealista perché oramai penso che ogni cambiamento politico, ogni evoluzione delle istituzioni politiche, nasce in primo luogo nelle menti e nei cuori delle persone, e la lotta del singolo per diventare una persona migliore non è meno importante della lotta per cambiare l’intero sistema.

Perciò mi voglio concentrare sul lavoro culturale e sullo sforzo di preservare e sviluppare i valori giusti, umanistici, i valori di un mondo libero che si contrappone alla barbarie autoritaria e fascista che, dal nostro punto di vista, continua a premere da est.

Nel contesto della guerra in corso fra Russia e Ucraina, con la Belarus’ che di fatto serve da piattaforma per le operazioni militari del Cremlino, come è possibile portare avanti la battaglia per la “rivoluzione culturale” che hai appena descritto? Soprattutto, che fine fa l’anelito verso la libertà in un paese come la Belarus’ che sembra sempre più essere legato (e soggiogato) a Mosca?

Oggi tutte le guerre sono “guerre ibride”, e questo da molto prima che la Russia lanciasse la sua invasione su larga scala contro l’Ucraina. Si tratta infatti di un’invasione di lungo, lunghissimo, termine, una sorta di invasione coloniale che ha comportato operazioni di lavaggio del cervello da parte delle forze imperialiste della Russia, dai canali televisivi russi e dai cosiddetti agenti per procura della Russia.

È esattamente ciò che puoi vedere ora in Belarus’: le persone sono sottoposte a una incessante campagna di indottrinamento che combina elementi della propaganda del Cremlino con uno stile distintamente autoctono. Insomma, una miscela di retorica imperialista russa e di approccio locale, più specificamente bielorusso.

Anche durante una guerra, dunque, la diffusione di informazioni rimane un compito cruciale, così come sostenere chi preserva sani principi, sulla base dei quali agisce. Anzi, l’importanza di questi gesti è addirittura amplificata. Oggi è infatti possibile notare che il regime di Lukašenka ha investito fortemente nella propaganda dopo il 2020. Quell’anno avevamo vinto noi la guerra per l’informazione e per ribaltare parzialmente il risultato gli ci è voluto almeno un mese, durante il quale ha imprigionato giornalisti, smantellato diverse organizzazioni e infrastrutture e ha fatto affidamento su tortura e pestaggi.

La mia missione allora è quella di continuare a dire la verità, impegnarmi nella difesa dei diritti umani e produrre analisi politiche che offrano una visione corretta sulle questioni geopolitiche e locali, nonché spingano verso la decolonizzazione. Intendo dedicarmi completamente alla decolonizzazione dello spazio informativo bielorusso e delle menti della popolazione bielorussa.

Sappiamo che il regime prende di mira prigionieri politici, soprattutto giornalisti, blogger e attivisti per i diritti umani, fabbricando accuse e che la dinamica si è intensificata in seguito all’invasione dell’Ucraina. Quali sono le violazioni dei diritti umani che ti sembrano essere le più gravi e sistematiche in Belarus’?

Dal mio punto di vista, le violazioni dei diritti umani più gravi e importanti oggi nel paese sono la tortura e l’isolamento. Dal 2020, nelle prigioni bielorusse i pestaggi sono diventati una sorta di procedura obbligatoria per alcune categorie di detenuti. Stando a quanto ho potuto osservare, se sei un anarchico, un ultras del calcio, una persona associata in qualche modo all’Ucraina, qualcuno che ha partecipato a proteste legali ma anche un militante di destra o neonazista, una volta arrestato verrai di sicuro picchiato e forzato a confessarti o scusarti davanti a una videocamera.

Al momento, ci sono circa 1200 prigionieri politici in Belarus’, che è un numero in sé molto alto per un paese di soli 9 milioni di persone, ma occorre considerare che la quota reale è certamente maggiore perché ci sono molte persone in carcere che hanno paura di essere identificate come attivisti politici. Questo perché il KGB e il GUBOPiK (e si tratta di una dinamica nuova) hanno messo molto in chiaro che nel caso dal carcere si trasmetta informazioni ai propri parenti e poi questi ultimi si mettano in contatto con associazioni per la difesa dei diritti umani, i parenti stessi verranno arrestati. E lo stanno facendo. 

Ecco perché non conosciamo ancora il numero esatto dei prigionieri politici. In più, alcuni di loro potrebbero non avere parenti o comunque potrebbero non essere in contatto con persone sufficientemente coraggiose da sostenerli.

Cosa può fare la comunità internazionale?

La comunità internazionale dovrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per migliorare la situazione, ma nelle condizioni attuali purtroppo gli obiettivi sono molto limitati. Ci sono comunque azioni da portare avanti: parlare del problema e menzionarlo nei contesti diplomatici; poi, sarebbe importante che i giornalisti affrontassero la questione non solo quando i prigionieri politici vengono liberati ma in ogni momento possibile, altrimenti le persone in carcere vengono dimenticate molto velocemente.

Tornando alla tua liberazione: come mai Lukašenka ha acconsentito a rilasciare 52 prigionieri politici? Come interpreti la sua decisione e come l’hanno interpretata le persone che hanno riguadagnato la libertà assieme a te?

Direi che è una dinamica che si è già data in altre situazioni. C’è un modello di comportamento che si ripete ciclicamente in Belarus’: ogni cinque anni, quando ci sono le elezioni, vengono denunciate repressioni da parte del regime, l’Europa e gli Stati Uniti impongono sanzioni e il governo di Minsk tiene le persone in carcere per un po’ di tempo come “moneta di scambio”. Tuttavia, permane sempre una pressione di natura diplomatica, economica e politica affinché si cerchi di far alleviare le sanzioni. A un certo punto, Lukašenka è spinto a rivolgersi alle nazioni europee e negoziare.

Questo è già accaduto almeno tre o quattro volte nella storia della Belarus’ moderna, ed è senza ombra di dubbio dovuto alle sanzioni. Lukašenka vuole fare in modo che l’economia cresca, e magari vuole guadagnarsi un po’ di indipendenza in più rispetto a Mosca.

In questa occasione magari è stato il presidente statunitense Donald Trump per primo che ha caldeggiato l’accordo, perché aveva anche lui qualcosa da guadagnarci e comunque voleva ripristinare le relazioni fra i due Paesi ed ecco che è stato messo in campo il solito processo di negoziazione, rilascio di prigionieri e alleggerimento delle sanzioni.

Mikola Dziadok, l’ultima nostra domanda riguarda l’anarchismo. Pensi che esista ancora uno spazio per l’anarchismo come forza politica, e in generale per i movimenti alternativi, in Belarus’ e in est Europa? In che senso l’anarchismo si distingue dalle altre realtà di opposizione e quali lezioni, forse, potrebbero trarre i movimenti politici di altri paesi dal caso bielorusso?

Dal mio punto di vista la condizione dell’anarchismo in Belarus’ è sempre stata molto peculiare perché nel nostro paese non disponevamo di una tradizione anarchica consolidata come in altri contesti europei. Il movimento anarchico è stato a tutti gli effetti distrutto in epoca sovietica e ha iniziato a ricostituirsi solo all’inizio degli anni ‘90. Insomma, l’anarchismo bielorusso compie ora i suoi primi 35 anni, potremmo dire.

In tutto questo periodo in realtà non abbiamo praticamente mai avuto alcuna sinistra extra-parlamentare, il paese è sempre stato una dittatura. Il movimento anarchico ha iniziato a guadagnarsi spazio e agibilità a partire dal 2008-2010, separandosi dagli aspetti più legati al suo essere comunque una sottocultura ed evolvendosi nella direzione di un movimento con caratteristiche più socio-politiche. A quel punto, le azioni rivoluzionarie che abbiamo tentato, la conseguente repressione subita, gli sforzi di costituire una nostra piattaforma di comunicazione indipendente, a cui è seguito il nostro impegno a fianco di altre forze della Belarus’ democratica, insomma, le diverse iniziative legate al nostro attivismo hanno fatto sì che diventassimo una presenza legittima nel movimento di resistenza civile e democratica.

E penso che la nostra situazione sia davvero unica. Non mi pare che esista un altro paese in Europa, e forse neanche al mondo, in cui il movimento anarchico è così legittimato presso la società civile e in cui l’etichetta di “anarchico” o “anarchica” non possiede alcuna connotazione negativa come in Belarus’.

Gli anarchici sono perfettamente integrati nelle strutture della società civile, lavorano come difensori dei diritti umani, come giornalisti, volontari, attivisti e amministratori senza dover nascondere i principi in cui credono e manifestando apertamente le proprie affiliazioni politiche.

È ovvio, quel tipo di anarchismo dell’inizio del XX secolo che affondava le proprie radici nelle sollevazioni operaie, nell’ideale della presa del potere e dello smantellamento delle strutture statali per fondare delle comuni autonome difficilmente risulta sensato oggi, non rappresenta qualcosa che rientra nell’orizzonte dei nostri obiettivi. Ciononostante restiamo fedeli ai nostri principi, che sono i principi del non sfruttamento, della comunicazione non violenta, del mutuo aiuto e sostegno e del rispetto e dell’inclusione reciproci. E, mi sento di dire, si tratta di valori e principi che si sono diffusi capillarmente nella parte progressista della società civile bielorussa.    

Questo rappresenta forse il nostro successo più importante. Il movimento anarchico non è mai stato un movimento di massa ma, più o meno in ogni fase, ha coinvolto diverse decine di militanti che riuscivano a ottenere risultati visibili perché erano estremamente attivi. Nonché subendo anche una costante repressione: se si cerca su internet “anarchici in Belarus’” in lingua bielorussa o russa, si vedrà che l’80% delle notizie consiste in militanti del nostro movimento che vengono picchiati, arrestati o cose simili. Grazie a questo ci siamo guadagnati una buona reputazione presso la società civile e la cittadinanza di orientamento democratico. 

Proprio per questo mi sento di affermare che per noi, anarchici e anarchiche, si prospetta un futuro piuttosto luminoso in Belarus’, in cui saremo in grado di continuare a diffondere i nostri valori e a collaborare con le persone a noi vicine attraverso le istituzioni sociali o addirittura le istituzioni politiche, proseguiremo a far conoscere il nostro programma e a parlare attraverso le nostre piattaforma di comunicazione dei nostri principi e della nostra visione per una società migliore.

In questo senso, il caso bielorusso forse può insegnare alle nazioni democratiche qualche lezione sull’importanza di evitare il consolidamento di ogni tipo di populismo, che sia un populismo di destra o di sinistra (Lukašenka è infatti un tipico “populista di sinistra”, anche se mi pare che in Europa occidentale è probabile che prendano il potere populismi di destra), perché rappresentano la via più breve perché si arrivi alla costituzione di una dittatura.

Quando lo Stato o una qualsiasi struttura statale iniziano a privare le persone di qualche libertà deve risuonare un campanello d’allarme ed è necessario agire il prima possibile. È davvero importante non rimanere sordi.

In Belarus’ per molti anni c’è stato un ampio gruppo di persone, tendenzialmente appartenenti alla classe media urbana (soprattutto lavoratori del settore informatico), che ha potuto godere di un buon salario, della possibilità di viaggiare all’estero e di tutta una serie di privilegi borghesi, che hanno semplicemente chiuso uno o entrambi gli occhi mentre Lukašenka era impegnato a reprimere e picchiare gli anarchici o i difensori dei diritti umani. Solo nel 2020 hanno aperto gli occhi e sono scesi in strada a protestare. Ma era già un po’ troppo tardi. Perciò è fondamentale rimanere consapevoli e attenti.

Inoltre, è ovviamente importante sostenere i prigionieri politici anche con gesti semplici come l’invio di lettere di solidarietà. Mentre ero in prigione non mi sarei mai aspettato di poter essere liberato molto presto, era facile convincersi che avrei passato magari metà della mia vita in carcere… È un’assenza di prospettive che rende molto facile perdere la speranza.

Sapere che là fuori c’è comunque qualcuno che sta pensando a te e che sta lottando per la giustizia, inclusa la giustizia associata alla tua libertà, è stato fondamentale per sopravvivere e per resistere a tutto ciò che ho passato.  

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