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Attraversando Medyka-Šehyni: il confine polacco-ucraino nella storia

La frontiera di Medyka-Šehyni è una delle poche del tratto a sud del confine polacco-ucraino a consentire il passaggio anche a piedi. È un capannone color antracite conficcato nella placida campagna polacca, un quadrato di cemento che negli scorsi mesi è stato attraversato da milioni di ucraini in fuga dalla guerra. Sono 2,9 milioni i profughi che hanno scelto di restare temporaneamente in Polonia, una cifra pari al 7,6% della popolazione nazionale e che rappresenta il numero più elevato di stranieri presenti nel paese dalla Seconda guerra mondiale ad oggi.

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Prima dell’invasione nazista del 1939 quasi un terzo della popolazione era composto da minoranze nazionali e in particolare da ebrei, ucraini, tedeschi e bielorussi. Gli shtetl parlanti yiddish, così come le enclavi di etnia ucraina, si concentravano nell’area sud-orientale dell’odierna Podkarpackie (la Precarpazia). A fine Settecento, dopo la spartizione della Confederazione polacco-lituana, questa zona formava – con le province di Leopoli, Lublino e Cracovia – la regione storica della Galizia asburgica (ben raccontata nel libro di Martin Pollack, Galizia: viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa, Keller, 2017).

Della frontiere Medyka-Šehyni si parla anche nel libro di Pollack, Galizia, di cui potete vedere la copertina

La fine dell’Impero austro-ungarico nel 1918 ha segnato lo sgretolamento della regione, aprendo la strada a una serie di scontri per il controllo del territorio. Alla proclamazione, da parte del Consiglio nazionale ucraino, dell’indipendenza della Repubblica popolare dell’Ucraina occidentale con capitale Leopoli ha immediato seguito un’insurrezione armata dei nazionalisti polacchi. Con la pace di Riga del 1921, la Galizia orientale e Leopoli sono annesse alla Repubblica polacca e restano tali fino all’invasione nazista.

La soluzione finale in Europa centrale, ad ogni modo, non si è esaurita con il mero annientamento della comunità ebraica polacca. L’eredità della guerra mondiale ha implicato la trasformazione della Polonia in un paese etnicamente e confessionalmente omogeneo, un tratto per certi aspetti inedito per il paese che nel Cinquecento ospitava sociniani ed altri eretici in fuga dalle persecuzioni religiose in Europa occidentale.

La convinzione che la compresenza di diverse comunità etniche potesse minare l’unità dello Stato-nazione e porre le basi per nuovi conflitti, ma anche il desiderio di vendetta nei confronti del popolo tedesco, sono stati elementi determinanti per il massiccio scambio di popolazioni che è seguito al conflitto e che ha coinvolto circa un milione e mezzo di persone. Le migrazioni forzate dei polacchi all’interno della linea di Curzon e la contestuale espulsione degli ucraini dalla Galizia occidentale non sono stati gli unici spostamenti di popolazioni tra il 1944 e il 1950, periodo in cui anche la minoranza tedesca in Slesia e Masuria è stata costretta ad abbandonare il paese nell’immediato dopoguerra per, almeno in parte, finire nei campi di lavoro sovietici.

Pulizia etnica e nazionalismo hanno così marcato le linee di confine dell’Europa postbellica.

A distanza di quasi un secolo, il confine polacco si scopre di nuovo poroso, aperto agli attraversamenti e alle trasformazioni storiche che questi comportano.

E il capannone di Medyka-Šehyni, stagliato in mezzo a chioschetti di cambio valuta e boschi di betulle, appare all’improvviso per ciò che è: una costruzione artificiale, a suo modo persino maestosa, eppure in fondo impotente.

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Maria Savigni
Maria Savigni

Laureata in giurisprudenza, nel 2016 ha trascorso un semestre all'Università di Cracovia. Si interessa in particolare di diritti delle minoranze, stato di diritto, cultura ebraica, femminismi e movimenti lgbt+ nell'Europa centro-orientale. Di questi e altri temi ha scritto per East Journal e Diritto Consenso.