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Marko Miladinović, Libro massimo di poesia, Agenzia X, 2024, p. 155
La scrittura poetica nasce nel contatto tra parola, desiderio, spazio e tempo, nel voler descrivere con le parole quello che una particolare esperienza sociale lascia dentro, nel voler parlare delle emozioni trasfigurandole, stravolgendole, cristallizzandole in un verso, in una rima, in un componimento.
In tempi come quelli odierni, schiacciati sotto il tragico peso degli eventi che, direttamente o indirettamente, condizionano la vita di tutti, le parole vengono costrette a restituire un calco di ciò che circonda i nostri sguardi: guerre, collasso, tensioni geopolitiche, malesseri diffusi. Sguardi differenti, però, possono restituire il valore di altre esperienze che eccedono il senso comune mediatico e la stasi delle maggioranze silenziose, così come delle (autoproclamate) minoranze silenziose.
“Libro massimo di poesia”: parole e identità plurime
Libro massimo di poesia di Marko Miladinović edito da Agenzia X (2024) è un esempio di questo modo differente di essere, di scrivere, di distillare il proprio vissuto attingendo a piene mani da ciò che le avanguardie artistiche negli ultimi due secoli hanno offerto come strumento per esprimere liberamente la propria parola. In primis, individuando nella connessione cosmopolita l’unico viatico possibile al sorgere delle necrosi nazionaliste, così come lo stato maggiore dadaista in piena Prima guerra mondiale che cospirava e assemblava la propria critica all’imperialismo e alle élites europee al Cabaret Voltaire di Zurigo (come fece Lenin, ma in forma differente). In secondo luogo, cesellando lingue, segni e parole, distorcendole, modellandole, trasformandole, portando lo stesso senso poetico e letterario agli estremi dell’assurdo e del nonsense.
La biografia di Miladinović testimonia immediatamente come questa dimensione cosmopolita sia inscritta nella storia personale dell’autore, figlio al contempo della diaspora jugoslava e delle contraddizioni sociali e politiche della prospera Europa centro-occidentale, o per dirla con le note di copertina, “uno svizzero-italiano-ex jugoslavo-non (ancora) europeo”.
In questo senso, le parole, i versi ed i contesti che l’autore dipinge e porta allo spasmo nelle sue rapsodie, nelle sue composizioni che assomigliano a un libero flusso in puro stile surrealista, sono le parole di una intera composizione sociale giovanile che aveva immaginato un’Europa differente, solidale, i cui desideri si sono schiantati contro una realtà fatta di muri, confini, precarietà, leggi speciali e algoritmi che determinano validità e bontà dei comportamenti sociali.
Le vene aperte del cosmopolitismo underground post-europeo
La koinè linguistica e culturale di Miladinović, differentemente, riporta alla concreta materialità quotidiana le vicissitudini di questa generazione post-europea, che desidera maggiori trasformazioni sociali e che non può riconoscersi in questa Europa con l’elmetto. Poniamo dunque l’operazione artistica dell’autore sotto l’ombra protettiva degli outsider della cultura europea degli ultimi secoli: Rimbaud, Jarry, Tzara, Artaud, Beckett, autori in cui il senso germoglia dalla follia e dall’assurdo, non scende dall’empireo delle Idee ma si produce a partire dall’accidentata esperienza soggettiva.
Ma vi sono anche tracce dell’agit-prop delle avanguardie politiche, del milieu situazionista in particolare. I componimenti poetici, gli schizzi, gli haiku deformati e affilati come il frastuono disorganizzato delle chitarre degli Half-Japanese, i ritmi serrati da apnea che assomigliano al clangore di una pressa sono anche una delle forme che può assumere il rifiuto del presente e la costruzione sotterranea di una alternativa possibile.
Dal punto di vista di una certa postura filosofica critica, non si esagera inquadrando il lavoro di Miladinović attraverso il concetto di “macchina desiderante” formulato da Gilles Deleuze e Felix Guattari: se per i filosofi il desiderio è ciò che costituisce maggiormente la soggettività, nelle pagine di Libro massimo di poesia esso è ciò che plasma la parola, che prefigura i corpi, il movimento delle idee e delle passioni. Il desiderio di vita, mediato dall’estremismo stilistico, racconta di una esistenza schizoide, trasfigurata dall’uso di diverse lingue, in perenne movimento, che prospera in situazioni marginali e impensate, che fluisce attraverso calembour e giochi linguistici che destrutturano all’osso il senso stesso delle parole.
Una poesia dell’eccedenza
L’ulteriore forza poetica delle composizioni è rappresentata dal sottile equilibrio su cui si reggono le polarizzazioni che strutturano la materia poetica e narrativa: la parola dello schizoide, infatti, vive su un limite costantemente ridefinito all’interno delle opposizioni tra l’afasia e la glossolalia – a volte di marca balestriniana – tra precarietà e libertà, in cui il rapporto con l’Altro è ridefinito continuamente. Una poesia dell’eccedenza dunque, una parola poetica che in realtà è un virus che l’autore usa per sdoppiarsi e fungere, in alcuni casi, da perfetto contro-coro a sé stesso, ma che è anche la voce di chi si muove nell’ombra, di chi scappa, di chi si dimette dai ruoli sociali che occupa, di chi crea conflitti per la libertà di tutte e di tutti.
Quello di Miladinović è un libro aperto, un patchwork che si nutre della linfa viva che scorre sotterraneamente nelle vene di questa Europa, ma che non smette di immaginarne una nuova, alla maniera di Breton e del surrealismo. Coniugare desiderio e vita, arte e rivoluzione, critica e poesia, politica e sogno è l’orizzonte concreto che un libro come questo può indicare e che può fungere da monito a questa generazione post-europea che sta decostruendo i miti della bianchezza, della statualità e delle identità nazionali attraverso i conflitti diffusi dell’ultimo ventennio. Una generazione che ha plasmato una propria grammatica sociale, estetica e politica, e che deve definitivamente farla finita con gli immaginari della sconfitta, della distruzione e dell’incapacità di agire.
Libro massimo di poesia, Marko Miladinović, Agenzia X, 2024