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Testimoni dell’esistenza. I rapporti tra la Biennale di Venezia e la Bosnia Erzegovina negli anni 1993-2003


di Irene Torrisi*

La Società di cultura, senza fini di lucro, ha lo scopo di promuovere a livello nazionale e internazionale lo studio, la ricerca e la documentazione nel campo delle arti contemporanee, manifestazioni, sperimentazioni, progetti, mediante attività stabili. La Società garantisce libertà di idee e di forme espressive; agevola la libera partecipazione di tutti gli interessati alla vita artistica e culturale; favorisce, anche mediante convenzioni, la circolazione del proprio patrimonio artistico-documentale presso enti, istituzioni ed associazioni culturali, scuole, università.

Così recitano i primi due punti dello Statuto di Fondazione della Biennale di Venezia, uno degli appuntamenti più attesi e importanti nell’ambito dell’arte contemporanea. Se quanto abbiamo appena letto rispecchia la realtà, possiamo senza dubbio capire quanto sia importante per una nazione riuscire ad avere uno spazio alla Biennale, che diventa un palcoscenico, un momento unico di condivisione della propria scena artistica e culturale sotto gli occhi incantati di centinaia di migliaia di visitatori da tutto il mondo.

Ciò che ogni partecipante sceglie di presentare in questa occasione è dunque di importanza fondamentale: gli artisti e le opere selezionate rappresentano le situazioni che il rispettivo paese si trova a vivere in un determinato momento storico. Un fenomeno unico che ci aiuterà ad analizzare alcuni scenari artistici molto interessanti, seppur sconosciuti ai più: la partecipazione di artisti bosniaci alla Biennale di Venezia durante gli anni del conflitto e dell’assedio di Sarajevo, e le relazioni nate in quegli anni tra Bosnia e Italia.

Ma andiamo con ordine. Il panorama culturale bosniaco non ci è del tutto sconosciuto: abbiamo già parlato di alcune manifestazioni artistiche durante gli anni della disgregazione della Jugoslavia nell’articolo sul gruppo Trio e la sua attività a Sarajevo tra il 1991 e il 1995, sottolineando anche come il gruppo non fosse l’unico attivo in città in quel periodo difficile. Se Sarajevo era già una città estremamente fertile dal punto di vista culturale, tutto questo fermento non si spegne con l’inizio della guerra, anzi, prolifera e tenta di trovare uno spazio, sia interno che esterno, dove confluire.

Non è facilissimo rintracciare materiale sufficiente sulla partecipazione della Bosnia Erzegovina alla Biennale di Venezia: contrariamente a paesi come l’Italia o gli Stati Uniti che all’epoca presentavano artisti già affermati e riguardanti i quali oggi esistono vasti archivi e pubblicazioni al riguardo, sulla Bosnia degli anni Novanta, che all’epoca non era ancora neanche considerata una nazione a sé stante ma veniva collocata nel padiglione assegnato alla Repubblica di Jugoslavia, ci rimane ben poco. Ma quel poco è prezioso in quanto è stato in grado di scoperchiare una cassa di tesori ignoti.

Una delle principali fonti a venirci in aiuto è il catalogo Artefacts. Bosnia and Herzegovina at Venice Biennale 1993-2003, realizzato nel 2007 da Ars Aevi. Un progetto nato nel 1992, durante il primo anno di assedio a Sarajevo, e oggi collezione di arte contemporanea, che nasce con l’obiettivo di raccogliere opere di prestigio internazionale per rendere Sarajevo una capitale multiculturale, seguendo il motto: Art can overcome evil and destruction. Culture is the mother of tolerance. Intercultural dialogue enriches. The universal language of art unites.

1993: macerie, bombe e Marlboro rosse

La 45esima edizione della Biennale di Venezia (1993), curata da Achille Bonito Oliva, dal titolo Cardinal Points of the Arts, vede due fenomeni interessanti provenienti direttamente da Sarajevo, città in quel momento  sotto assedio. Il primo è la partecipazione dell’artista Braco Dimitrijević, uno dei più attivi dell’ambito della New Art Practice affermatasi nell’ultimo periodo in Jugoslavia, termine che identificava tutte quelle esperienze artistiche con diversi punti in comune con ciò che avveniva nell’Europa occidentale sotto il nome di arte processuale, body art, arte povera, ecc. Il saggio Postcommunism and the Rewriting of (Art) History)? di Bojana Pejić è utilissimo per chi volesse approfondire la questione.

Dimitrijević aveva già diverse esperienze di Biennale alle spalle, avendo partecipato ad alcune edizioni precedenti oltre che ad altri appuntamenti illustri quali Documenta. I suoi lavori più famosi risalgono agli anni Sessanta, quando l’artista era ancora giovanissimo e si divertiva a realizzare interventi per le strade: la città è il suo sfondo prediletto e le serie Casual Passers – By I Met at… lo dimostrano bene. Sono una serie di fotografie che mostrano le facciate di palazzi, autobus e pensiline in cui egli aveva apposto dei ritratti fotografici di volti di uomini sconosciuti. In un contesto fortemente influenzato dalla mentalità sovietica, in cui il culto della personalità del capo di stato era fortissimo, il lavoro di Dimitrijević appare audace e rivoluzionario in quanto intenzionalmente decostruisce e manipola questo concetto, inserendo nella realtà quotidiana le gigantografie di volti casuali e anonimi. Nel 1993 Dimitrijević partecipa alla Biennale di Venezia con l’installazione Citizens of Sarajevo, che consiste nuovamente in ritratti fotografici di grandi artisti, intervallando ogni cornice con una piccola ascia affilata, conficcata nella parete, rendendo l’intera installazione intrisa di un senso di pericolo imminente.

Dimitrijević non è l’unico partecipante dalla Bosnia e Erzegovina alla Biennale: lo stesso anno viene infatti presentato al mondo intero Witness of Existence (Svjedoci Postojanja), un progetto nato due anni prima a Sarajevo. Il titolo viene preso in prestito dalla prima personale di uno degli artisti coinvolti, Nusret Pasić, poiché particolarmente adatto a descrivere la condizione di precarietà del popolo bosniaco in quel determinato momento storico, in cui ognuno si trovava ad essere testimone – e non protagonista – della propria esistenza, ogni giorno più a rischio. È il 1991 quando, nonostante la guerra appena iniziata, otto artisti sarajevesi mettono in piedi questo grande ciclo di mostre, organizzato dalla Galleria Obala Art Center. Nusret Pašić, Zordan Bogdanović, Ante Jurić, Petra Waldegg, Mustafa Skopljak, Edin Numankadić, Sanjin Jukić, Radoslav Tadić. Questi sono i nomi degli artisti a cui verrà concesso di entrare alla Biennale di Venezia tramite video e fotografie: gli otto artisti non riescono infatti ad uscire da Sarajevo assediata. Pašić, che da sempre aveva lavorato con materiali di scarto, realizza un’installazione consistente nei resti di un’auto carbonizzata dopo un’esplosione, circondata dalle pagine di Oslobođenje, il quotidiano bosniaco più importante durante la guerra. Intorno alla scena vengono appese delle tele strette e allungate, su cui sono dipinte delle inquietanti figure antropoidi, con la testa simile a un volto e il corpo lungo e sottile, quasi dei fantasmi rimasti a guardare ciò che resta nella devastazione generale.

Ante Jurić e Zoran Bogdanović, entrambi scultori, lavorarono assieme alla video performance Spirituality – Destruction (1992) in cui si vedono i due artisti intenti a raccogliere i detriti di ciò che restava dell’ufficio postale di Sarajevo, distrutto da una bomba. Inoltre, il punto di vista da cui è stato girato risulta essere non quello di un osservatore qualsiasi, bensì di uno sniper, i cecchini che durante l’assedio sovrastano la città, onnipotenti. Jurić presenta un’ulteriore videoperformance per l’inaugurazione della Biennale, The Sarajevo Shot, in cui l’artista impugnando una pistola spara un colpo diretto verso un pezzo di vetro, accompagnato dal motto Shoot materials, not people

Estremamente suggestiva anche la performance di Mustafa Skopljak, che accumula grumi di terra dentro cui seppellisce le opere, che consistono in piccole teste di legno dalle fattezze umane: queste sepolture vengono poi coperte da grossi pezzi di vetro, provenienti dalle vetrine distrutte del centro di Sarajevo. La performance si sviluppa con l’artista che, aggirandosi in questo cimitero amatoriale, lentamente e con grande cura, porta a termine ogni sepoltura, in un rituale che vuole ricordare ciò che stava accadendo in Bosnia, dove la sepoltura in fosse comuni era diventata ormai una pratica ricorrente.

Petar Weldegg realizza tre muretti di mattoni a cui accosta dei sacchi sabbia, un altro dei simboli dell’assedio dato che venivano utilizzati dai civili per ridurre i danni agli edifici durante i bombardamenti. Di una delicatezza struggente è invece l’installazione di Edin Numankadić, Traces from the War. Un tavolo da cucina, piccolo e misero, accompagnato da due sedie sbilenche. con sopra tutto ciò che durante gli anni della guerra era divenuto la quotidianità di una cucina sarajevese: una pagnotta, delle carte da gioco, i pacchi degli aiuti umanitari, un coltello. La vita che nonostante tutto va avanti, acquisendo nuovi attributi che entrano a far parte della quotidianità.

biennale di Venezia bosnia

Decisamente più cinico è invece l’approccio di Sanjin Jukić, che realizza una sorta di show, il Sarajevo Ghetto Spectacle, in cui punta il dito contro l’indifferenza dei media nonostante la situazione tragica in città, in maniera simile al gruppo Trio. Jukić utilizza infatti alcuni simboli della cultura occidentale per farsi gioco della reazione tiepida del resto del mondo alla guerra in corso: una grande scritta a caratteri cubitali che presenta le stesse fattezze delle lettere del logo di Hollywood ma che invece recita Sarajevo. Potentissima è l’installazione Sarajevo Likes America and America Likes Sarajevo, in cui è rappresentato l’interno di una casa: sul muro vi sono due cartine geografiche, rappresentanti Sarajevo e gli Stati Uniti. Sopra ciascuna domina la rispettiva bandiera, mentre sotto, su una sofra, il tavolino basso tipico ottomano, stanno simmetricamente per ciascun lato un pacchetto di Malboro, una lattina di Coca-Cola e una džezva, la tipica caffettiera di rame utilizzata per la preparazione del caffè in Bosnia. Questi oggetti, appartenenti a due mondi completamente opposti e accompagnati dal titolo irriverente dell’installazione, contengono tutto lo sconforto e la rabbia di un popolo che, durante gli anni più difficili, viene fondamentalmente dimenticato.

Questa edizione della Biennale, a cui abbiamo voluto dedicare tanto spazio, è forse quella più importante dell’intero decennio: non solo la presenza bosniaca si fa largo per prima volta in maniera consistente, ma catalizza l’attenzione su ciò che avviene nel paese in maniera sopraffina e orgogliosa, pur dovendo fare a meno della presenza fisica degli artisti stessi, che riuscirono nonostante tutto a essere specchio della propria nazione.

1995/1997/1999: calma apparente

L’edizione successiva della Biennale di Venezia (1995) pare non portare con sé grandi tracce della scena culturale bosniaca: sulla scheda ufficiale dell’evento si legge ancora Repubblica Federale di Jugoslavia e l’unico artista menzionato è il serbo Miloš Šobajić. In realtà, il grande lavoro che nel frattempo aveva compiuto Ars Aevi, costituita nel 1991, comincia a dare i suoi frutti e questa viene invitata a tenere una conferenza, segnando un sodalizio a partire da quel momento in poi tra la collezione e la Biennale.

Lo stesso discorso vale per la Biennale del 1997, in cui seppur non compare ancora alcun padiglione dedicato, Ars Aevi è invitata all’evento dal sindaco di Venezia, allora Massimo Cacciari, che propone anche di portare in città una parte della collezione sarajevese ed esporla durante i mesi della Biennale, dando così vita alla mostra Artisti per Sarajevo, a cura di Chiara Bertola, presidentessa dell’importante fondazione di arte contemporanea Bevilacqua La Masa, attivatasi personalmente affinché partecipassero artisti parecchio affermati tra cui Joseph Kosuth e Alighiero Boetti, le cui opere poi andarono ad aggiungersi alla collezione Ars Aevi. Ricordiamo anche che il 1997 è l’anno in cui viene presentata alla Biennale la famosissima performance Balkan Baroque dell’artista serba Marina Abramović, che fu di grande impatto mediatico e servì a riportare l’attenzione su ciò che stava ancora avvenendo nei Balcani, vincendo tra l’altro anche il premio Leone d’Oro per la Pace.

L’edizione del 1999, che nuovamente non sembra possedere nulla di rilevante, risulta comunque parte in un processo fondamentale: è infatti in questi anni che gli accordi tra Ars Aevi e l’Italia si intensificano. È lo stesso fondatore, Enver Hadžiomerspahić, a raccontarlo in un’intervista concessa a Osservatorio Balcani e Caucaso, in cui viene spiegata l’importanza delle donazioni di artisti già affermati, che rende possibile la creazione di una collezione di opere di prestigio internazionale la quale cattura l’attenzione estera sul progetto. Sempre nello stesso anno avviene anche l’incontro fra Ars Aevi e l’architetto Renzo Piano, il quale si offrì di realizzare la sede della collezione a Sarajevo. Nonostante l’interesse e la presentazione del progetto alla presidentessa UNESCO, che riconobbe Ars Aevi come fatto culturale, artistico e politico indispensabile e rilevante a livello mondiale (Artefacts, 2007) finora la costruzione del museo risulta ancora in stato di stallo, per via della mancanza di fondi. È stato però realizzato, su progetto dello stesso Piano, il Ponte Ars Aevi, che taglia in due il fiume per condurre i visitatori alla futura sede.

2001/2003: care memorie

Nel 2001 abbiamo nuovamente dei segni di una presenza bosniaca a Venezia: alla 49esima edizione della Biennale, pur non essendoci ancora un padiglione ufficiale per la Bosnia Erzegovina, compaiono le opere di Anur, artista grafico specializzato nella realizzazione di poster dallo sfondo politico. Human Condition – Made in Bosnia è il titolo della serie presentata a Venezia: ancora una volta il conflitto è presente e vivo nella memoria di chi lo ha vissuto e, di nuovo, lo scopo della serie sembra voler ricordare al mondo ciò che è accaduto.

biennale di Venezia bosnia

I poster colgono alla perfezione il carattere distruttivo dell’essere umano, in cui il capitalismo e la smania di ricchezza detengono un ruolo centrale: attraverso l’uso di semplici fotografie in bianco e nero e titoli incisivi, Anur riesce a rendere questo concetto con ironia e disincanto: Buy Five Get One Free (1997) è apparentemente la fotografia di una confezione di uova, su cui si adagia lo slogan pubblicitario che invita a comprarne sei al prezzo di cinque; ma se si osserva bene, notiamo come queste siano sovrastate da un detonatore, come fossero piccole granate pronte ad esplodere. Allo stesso modo, il poster Peace Brothers (1999) presenta una mano immortalata nel classico gesto di pace, a cui però manca una delle dita, il pollice, chiaro riferimento alle mutilazioni subite dai civili anche dopo la guerra a causa delle mine rimaste inesplose. With God On Our Side (1997) mostra una mano che regge quattro carte da gioco tra le dita e di cui ognuna è contrassegnata, al posto del classico seme, dal simbolo di una religione: la stella di David ebraica, due croci, una cattolica e una greca, simbolo del cristianesimo ortodosso e infine la luna con stella dell’Islam. Sono i quattro credi più diffusi in Bosnia, le quattro dottrine diverse su cui è stata fatta leva per sollevare astio e diffidenza negli anni del conflitto.

biennale di Venezia bosnia

Il 2003 porta una svolta importante: la 50esima edizione della biennale, diretta da Francesco Bonami e dal titolo Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore vede per la prima volta il Padiglione Ufficiale della Bosnia Erzegovina. A fare da commissario lo stesso Hadžiomerspahić che presenta quattro artisti: Maja Bajević, Jusuf Hadžifejzović, Edin Numankandić e Nebojša Šerić-Shoba. Bajević, videomaker,si concentra sugli effetti del dopoguerra sul paese, che si trova in crisi per via dell’alto tasso di povertà e dalla difficoltà di adattamento da un sistema politico e un altro. Ricordiamo Back in Black, video in cui diversi individui vengono ripresi mentre recitano black jokes su Sarajevo. È una metafora sulla situazione della città durante e dopo la guerra, in cui il cinismo rimane l’unica arma a disposizione per evadere da una realtà crudele.

Similmente fa Šerić-Shoba, con la sua opera Sarajevo – Montecarlo (1998) in cui accosta due suoi diversi ritratti fotografici a busto intero. A sinistra, l’artista si trova vestito di tutto punto sulla riviera monegasca, circondato da hotel e barche, a destra, nella medesima posa con il ginocchio alzato e appoggiato su un supporto vicino, è invece in divisa militare e armato. L’opera gioca tutto sul contrasto tra due realtà che nonostante la vicinanza geografica erano state così distanti negli anni precedenti: durante le estati, mentre a ovest la gente poteva godersi le vacanze in riviera, a est si combatteva per la vita. Anche Numankandić, che già avevamo visto nel 1993 con gli assemblaggi Traces from the War, come gli altri declina ora la sua poetica in una riflessione sul dopoguerra.

biennale di Venezia bosnia

Fragili e misere, come la Bosnia di quel momento, sono le opere di Sarajevo Box (1992-1996): scatole di gioielli svuotate del loro contenuto prezioso per essere riempite di bossoli, munizioni, latte in polvere, mozziconi di candele. Tutti oggetti che durante la guerra avevano assunto importanza fondamentale nella vita quotidiana dei cittadini sarajevesi. Alla Biennale Numankandić presenta anche Inscriptions from the War, tele in tecnica mista, con pittura e frammenti di testo che vogliono essere brandelli di memoria collettiva per ciò che è stato.

E oggi?

Vi sono state altre mostre e interventi negli anni successivi grazie al sodalizio ancora attivo tra Ars Aevi e alcune importanti realtà italiane. Lo scopo di questo articolo è però portare nuovamente l’attenzione sulla fertile scena artistica bosniaca, ancora oggi molto poco conosciuta se la si confronta con realtà coeve occidentali, e che assume un significato ancora più importante se si pensa al fatto che tutte le opere esaminate vennero concepite durante gli anni più difficili per la nazione.

Ancora una volta, un’ode al coraggio di un popolo che ha trovato modo di urlare al resto del mondo la propria situazione, con modi e risultati diversi tra loro. La dolcezza degli assemblaggi di Numankandić, contrapposti a quelli decisamente più cinici di Jukić, i poster geniali e linguacciuti di Anur, le foto di Šerić-Shoba, le memorie di tutti gli artisti che ebbero modo di portare alla Biennale di Venezia la propria terra e condividerla con il resto del mondo, senza morbosità o vittimismo, ma come semplici testimoni di esistenza.


Foto gentilmente concesse dal direttore del museo Ars Aevi

*Irene Torrisi è una storica dell’arte, specializzata in contemporanea, è appassionata di storia e arte est europea del secondo dopoguerra, dalla nascita dell’ex Jugoslavia alle guerre balcaniche. Vive e lavora principalmente in Sicilia, come curatrice freelance e operatrice culturale. 

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Irene Torrisi
Irene Torrisi

Storica dell’arte, specializzata in contemporanea, è appassionata di storia e arte est europea del secondo dopoguerra, dalla nascita dell’ex Jugoslavia alle guerre balcaniche. Vive e lavora principalmente in Sicilia, come curatrice freelance e operatrice culturale.