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Guerra in Slovenia: la storia dell’uomo che sparò all’elicottero

È un normale pomeriggio di fine inverno nella Carniola interna: grigio, freddo e con tutte le intenzioni di buttare giù pioggia a secchi come è successo ogni giorno delle due settimane precedenti. Sono in riva al Cerkniško jezero, il lago di Cerknica, senza riuscire ancora a capire bene quello che sto vedendo. “Non lo riconosci, vero?” mi chiede l’uomo che ho a fianco. Faccio segno con la testa che no, non è possibile che questa massa di acqua sia andata a riempire l’enorme invaso sul fondo roccioso del quale lo stesso uomo mi aveva portato a camminare qualche mese prima, in piena estate. Mi aveva invitato a inginocchiarmi a ridosso di una delle molte grandi spaccature che seghettavano il terreno: “Ascolta” mi disse, cosa che mi apprestai a fare con un certo scetticismo perché avevo già fatto esperienza del suo bizzarro senso dell’umorismo. Mi chinai come una guida Sioux e fu come aver portato all’orecchio una conchiglia di ventotto chilometri quadrati: dallo stomaco della terra veniva il suono dell’acqua, forte e placido al tempo.

Cerkniško jezero (foto di Sergio Pilu)

“Siamo sul fondo di un lago carsico” mi spiegò l’uomo rispondendo alla domanda che veniva fatta dai miei occhi in sostituzione della bocca stupefatta. “Si riempie con le piogge e si svuota nella stagione secca, quando è pieno è il più grande lago sloveno” concluse, promettendomi che la prossima volta che sarei tornato mi avrebbe portato a vederne la trasformazione magica: che è quel che ha fatto oggi.

L’uomo si chiama Anže, ha circa la mia età e vive in una casa a due piani a Cerknica insieme alla moglie e ai tre figli. È la casa nella quale mi ha invitato a trascorrere il pomeriggio per discutere del contratto che unirà per qualche tempo le nostre vite professionali rendendolo un mio collaboratore, responsabile della gestione quotidiana di un team di una decina di persone sparse tra Slovenia, Croazia e Serbia. Parliamo di questioni organizzative, la frequenza con la quale ci dovremo sentire e incontrare, il flusso delle informazioni da un gruppo all’altro, la reputazione di un fornitore. Le condizioni economiche le abbiamo già concordate nelle settimane precedenti; quindi, non ci resta che augurarci reciprocamente buona fortuna e firmare il documento, cosa che facciamo alzando autoironicamente al cielo le due tazze di cioccolata calda che Tina, la moglie, ci ha portato poco prima.

Parenti serpenti

Nonostante l’impegno sia ormai assunto da entrambe le parti, gli chiedo ancora una volta – essenzialmente per mio conforto – se pensa che ci saranno problemi nel far lavorare insieme, sebbene a distanza, un gruppo di persone fatto non solo da sloveni come lui ma anche da croati e serbi (il non detto, che lui capisce fin troppo bene, è che le guerre sembrano finite ieri, che le memorie sembrano ancora fresche e che insomma, mi piacerebbe che i miei dipendenti non si scannassero, seppure solo virtualmente, facendo così colare a picco il castello lavorativo la cui edificazione mi ha portato via quasi un anno di vita).

Anže risponde tranquillo e tranquillizzante alzando appena una spalla come per scuotere la polvere del mio dubbio: “Non ti preoccupare,” mi dice “sono passati anni e siamo dei piccoli paesi che hanno bisogno gli uni degli altri per stare a galla. E poi” continua dopo una microscopica pausa “questo è lavoro”. Lo dice come se la vita vera degli affetti, delle amicizie e in generale dei rapporti umani potesse davvero stare da un’altra parte, fuori dalle porte degli uffici e lontana dalle scrivanie degli open space. “Bene, allora è tutto a posto” dico, soprattutto a me stesso; poi, senza un motivo vero e proprio che non sia un inconfessabile masochismo, gli chiedo se lui ha preferenze fra croati e serbi.

Manifesto raffigurante l’unione dei popoli jugoslavi – Credits: leksikon-yu-mitologije.net

A dire il vero faccio una cosa parecchio più stupida, gli chiedo se gli sloveni – tutti – hanno preferenze fra croati e serbi, come se lui fosse la sineddoche vivente rappresentativa di due milioni di suoi compatrioti. Anže risponde con l’indifferente la serietà di uno che non si fa problemi a parlare a nome di una nazione: “Certo che le abbiamo, preferiamo sicuramente i serbi”; di fronte al mio sguardo stupito – non so bene perché ma in qualche modo ero convinto che sloveni e croati fossero tra loro più vicini e simili e amici, vuoi per la geografia, vuoi per la religione – mi spiega che ci sono due ragioni: la prima è che “if there is to party, no one in the world can beat the Serbs” (e per il poco che ho visto non posso dargli torto); poi fa una pausa vagamente teatrale e, con lo stesso tono che userebbe per consigliarmi un parcheggio nel centro di Lubiana, mi dice “e poi, sai, c’è un’altra cosa: se ti devono ficcare in corpo un coltello, i croati aspettano che tu gli dia le spalle; i serbi invece lo fanno standoti di fronte: e questo noi lo apprezziamo”. Sospiro.

Salutiamo Tina e i ragazzi, che ormai mi trattano come uno di famiglia e usciamo. Anže vuole festeggiare il contratto in una gostilna arrampicata in collina, il classico locale in legno senza particolari pretese di servizio dove carne, birra e vino portano in pochi minuti la temperatura interna a punte equatoriali mentre a poca distanza gli orsi passeggiano indisturbati. Dopo un paio di bicchieri ci sciogliamo nelle chiacchiere extralavorative, di quelle che un giorno torneranno utili quando dovrai affrontare una mancata consegna o una richiesta imprevista del cliente e che al tempo stesso sono il vero motivo per cui facciamo questi lavori che ci portano in luoghi che molti nostri conoscenti non saprebbero collocare sulla carta geografica.

Anže ha sempre vissuto da queste parti. È nato a Postojna, la Postumia delle grotte. Senza che glielo chieda (perché, lo ammetto, ho ancora la testa a quella sua frase sui coltelli in pancia o alle spalle) mi racconta di un’infanzia e un’adolescenza da figlio unico che definisce deprimenti per il divorzio dei genitori, l’alcoolismo del padre e l’ingombrante presenza di una madre con la quale ha interrotto i rapporti per una decina di anni. “Non ne ero cosciente, ma questi casini di famiglia mi facevano avere un sacco di problemi con l’autorità, non potevo sopportare di avere un capo, qualcuno che mi dicesse cosa dovevo fare” mi dice occupandosi di una braciola di maiale, apparentemente senza dar peso al fatto che il pezzo di carta che abbiamo firmato poco fa stabilisce che per circa metà del suo tempo futuro di capi ne avrà addirittura due, io e una signora slovena dal carattere che solo l’esperienza ci rivelerà come a dir poco instabile. Decido di non dare importanza a questo particolare e, approfittando dell’intimità speciale e non riproducibile che permette a ciascuno di noi di aprirsi con gli sconosciuti senza filtri né vergogne, chiedo a Anže di raccontarmi della guerra.

Dall’altra parte della barricata

Qui da voi è stata una cosa veloce, gli dico, per fortuna ve la siete cavata con poco. Anže si rabbuia alle mie parole, come se avessi volutamente mirato a un quadrato dove la sua pelle è più sottile e debole, a una cicatrice i cui lembi sono sempre sul punto di riaprirsi. “A quel tempo stavo prestando servizio nell’esercito jugoslavo” mi dice, con un tono che non gli ho mai sentito usare e che non saprei definire se non come quello di un altro uomo, un Anže che si guarda da fuori senza usarsi né cortesia né tanto meno compassione.

“Quando venne dichiarata l’indipendenza sapevamo che questo avrebbe potuto portare a cose ​​strane”. Mi racconta che prima di quel giorno i turni di guardia si erano raddoppiati e che i superiori – ma non solo loro, era un atteggiamento più generale, diffuso in tutti i ranghi di un esercito che era fatto in maggioranza da serbi e montenegrini e in seconda battuta da croati – prestavano più attenzione a loro, agli sloveni, come se li volessero tenere d’occhio per evitare brutti scherzi. Che è quel che successe comunque, anche se “brutto” è ovviamente un aggettivo che dipende dal punto di vista: “dopo la prima notte, abbiamo deciso di scappare dall’esercito federale per entrare in quello sloveno; eravamo disposti a combattere, se necessario” mi dice, e faccio fatica a vedere quest’uomo che sta entrando nella mezz’età e che sul lavoro ho sempre conosciuto come una persona gioviale e accomodante, vestire una mimetica e imbracciare un’arma con la consapevolezza e la disponibilità che si scioglie nel desiderio di poterla usare.

𝙏𝙚𝙣-𝘿𝙖𝙮 𝙒𝙖𝙧 | Yugoslav Wars Aesthetic Montage

E infatti un lampo illumina l’Anže di oggi, quello che ho deciso di assumere fidandomi dell’impressione di dieci anni abbondanti di frequentazione: “Eravamo giovani e verdi, non sapevamo quanto fosse grave quella decisione” quasi mormora, e so che quel “green”, che usa per definire se stesso e i suoi amici e commilitoni del 1991, significa acerbi, ragazzi che avevano avuto la fortuna di crescere senza particolari problemi, in pace: proprio come me, che in quell’anno iniziavo a scrivere la tesi di laurea, e per un brevissimo secondo – quello che serve a Anže per fare una pausa e restare con i propri ricordi, in volto l’espressione di uno che quasi non crede a se stesso – mi chiedo se, dato che quella fortuna mi ha accompagnato fino a ieri, oggi mi ritroverei tanto “verde” quanto lo ero in quell’inizio di estate nonostante i troppi capelli bianchi che ormai porto.

In quei giorni sua madre fece installare un telefono nuovo nel loro appartamento; Anže dice che la prima chiamata la fece lui per dirle che sarebbe scappato presto. “Buona fortuna. Chiamami quando sarai al sicuro” rispose lei, e lui considera quello il momento in cui è diventato uomo, non per la decisione in sé ma perché sua madre non reagì piangendo e allegando alle lacrime via cavo le parole che era lecito attendersi: “ma sei giovane, per favore non andare, è pericoloso”. “Mi fece capire che quello che stavo per fare era ciò che serviva per diventare uomo” dice convinto e non credo di avere il diritto di obiettare che di modi per diventare adulti ce ne sono molti, alcuni dei quali escludono l’uso delle armi: non lo faccio perché so di non avere di fronte un Rambo del Carso sloveno: per lui, credo, quello fu il momento nel quale si ritrovò in corpo, in modo molto probabilmente inaspettato, la forza di affrontare una situazione difficile scegliendo un’opzione che gli sembrò al tempo stesso necessaria e dignitosa.

Nella stessa notte della telefonata alla mamma, dei nove sloveni che facevano parte del suo gruppo – un battaglione, un reggimento, questo non viene detto – sei scapparono oltre la recinzione della base militare per correre a rifugiarsi nella più vicina stazione di polizia. Anže era uno di quei sei. Li portarono prima in un centro di raccolta ma nel caos di quei momenti non trovarono una soluzione migliore per passare la notte che accucciarsi dentro alcune vetrine di negozi nel centro di Lubiana. Il giorno dopo li portarono in un villaggio, dove dormirono nel fieno per diversi giorni. “Un giorno c’era un elicottero che volava molto basso e il mio collega mi ordinò di sparargli. Mentre tiravo la raffica mi accorsi che l’elicottero aveva le insegne della Croce Rossa e che dalla cabina lanciavano armi nell’erba del prato che stava sotto” racconta facendo girare il vino nel bicchiere squadrato e pesante. “Crollai a terra e decisi che quella non era la mia guerra”.

Un unico istante densissimo

C’è un gruppo di storie, e di racconti che le portano a noi, che vivono intorno a un istante densissimo, il big bang di una supernova che, non importa quando arriva, dà poi il senso a tutto il resto: ciò che è venuto prima, ciò che sarà in seguito. Spesso, questo istante non lo riconosciamo subito e altrettanto spesso lo confondiamo con un altro, che arriva immediatamente dopo: è quello prima del salto dal trampolino del ragazzo di Per sempre lassù di Foster Wallace, è la frazione di secondo che racconta Javier Cercas in “Anatomia di un istante” nella quale Santiago Carrillo decide di restare in piedi e rischiare la vita davanti ai golpisti spagnoli che assaltano il parlamento.

Guerra in Slovenia
Colonna di carri jugoslavi al confine sloveno, luglio 1991, durante la guerra in Slovenia – Credits: balkaninsight.com

Nel tranquillo brusio della gostilna, tra boccali di birra e piatti di carne che vanno e vengono dai tavoli che abbiamo intorno non individuo l’istante denso come un buco nero intorno al quale gira la vicenda, e forse buona parte della vita di Anže. Mi ci vorrà del tempo per capire che devo spostare lo sguardo dal momento in cui Anže preme il grilletto per tirare la raffica verso l’elicottero a quello in cui decide se tirarla, dopo che il collega – forse un superiore – gli grida di sparare. Quanto possa essere durato quell’istante non posso saperlo: molto probabilmente, nemmeno il tempo di articolare un pensiero compiuto, di fare una valutazione dei pro e contro, di fare i conti con se stesso e con ciò che gli stava intorno. Eppure sento che è lì che si gioca tutto, quando la vita lo obbliga a fare una scelta per la quale non era pronto perché mai avrebbe pensato di essere obbligato a prenderla. È facile dire “se sei un soldato sai che ti può succedere” e c’è del vero in questa constatazione di semplice buon senso: ma è un vero che vale fino a quando non sei tu a trovartici dentro.

In quell’istante brevissimo ed eterno Anže è un bruscolino insignificante per il mondo, ad eccezione di quel microcosmo fatto da se stesso e da chi stava sull’elicottero; quando mi fermo a pensare a quel momento mi rendo conto che una guerra è forse fatta più dai milioni di singoli secondi come quello che ha vissuto il mio amico e collaboratore che dalla manciata di enormità che entra nei libri di storia: ed è lì, quando io sono fermo in coda sulla tangenziale della mia città e lui chissà dov’è, forse sta passeggiando insieme al suo cane lungo la riva del Cerkniško jezero, che prima ancora di realizzare la mia fortuna sento una compassione infinita e senza speranza per Anže e i milioni di uomini e donne che si sono trovati nella sua medesima condizione.

Fa’ la cosa giusta

Anže mi dice che poco dopo ebbe la conferma che la sua raffica era stata “giusta”, poiché l’elicottero che aveva abbattuto stava portando forze speciali federali in una caserma dell’esercito jugoslavo e il suo equipaggio aveva sparato ai militari sloveni che si trovavano nella caserma di Vrhnika. “Ho anche ricevuto una medaglia per essermi unito all’esercito sloveno,” aggiunge quasi imbarazzato, e infatti ci tiene a farmi sapere che “comunque, credimi, le armi non mi piacevano affatto”.

Nell’incertezza che seguì la fine della guerra di indipendenza slovena, quando il giudizio su uomini come Anže andava da disertore a eroe nel giro di un bicchiere di slivovica e nessuno sapeva che cosa sarebbe successo il giorno dopo, Anže decise di andarsene dalla Slovenia. “Mia madre mi venne a prendere insieme a un amico. Andammo prima a Trieste da una lontana parente, ma questa aveva così paura dei fascisti in Italia che si rifiutò di ospitarmi come rifugiato e decidemmo di andare in Austria da un prete sloveno che era già riuscito a trovare riparo, anche solo un letto per dormire per diverse persone. Quei quattordici giorni sono stati i più belli della mia vita: ho lavorato in un ristorante, pulendo e lavando, e la notte passavamo il confine per tornare in Slovenia a fare festa”.

Disertore di guerra – Credits: npr.org

A questo punto la conversazione si sfalda un po’, come se avesse raggiunto e superato la sua acme. Anže mi parla dei giorni durante i quali valutò l’idea di restare in Austria, e di quelli nei quali pensò di emigrare negli Stati Uniti, mi dice che a bocce ferme non pensa che la guerra abbia condizionato il resto della sua vita – si è sposato, ha messo su un’azienda, quello che è successo all’inizio degli anni Novanta non produce più, almeno qui in Slovenia, effetti quotidiani come succede in altre parti della ex Jugoslavia. Mi ripete sorridendo il detto sui serbi che ti accoltellano di fronte e i croati che ti pugnalano alle spalle; fa una pausa quasi impercettibile, poi aggiunge serio, come per farmi capire che per lui quelle sono scemenze: “anch’io ho perso degli amici in guerra. Un serbo e un croato. Erano brave persone, positive, ottimiste, ma li usarono come carne da cannone”. Parla senza enfasi, mi trovo di fronte una versione diversa dell’uomo solare e quasi guascone che ho incontrato tante volte e penso all’abisso nel quale è sprofondato nel giro di pochi anni in questo pezzo di mondo così vicino a casa mia, dove un ragazzo qualunque, nato e cresciuto nell’angolo più ricco e tranquillo di quello che era il suo paese, ha due amici morti in guerra. Due, che sono una mostruosa enormità e che, al tempo stesso, sono nulla rispetto a ciò di cui ha fatto esperienza chi è nato e vissuto solo duecento chilometri più a sud.

Un giorno del 1991 Anže ricevette l’ordine di sparare a un elicottero in volo. Non ebbe il tempo di pensare: obbedì, e la sua vita cambiò.

Restiamo in silenzio, durante il quale ci vengono portate due fette di gibanica così alte da ripiegarsi su se stesse. “Senti Anže, scusami se ti ho fatto parlare di cose che magari preferivi non ricordare” gli dico senza crederci davvero. Per un minuto parlo io e gli assicuro che mi interessa davvero sapere, ascoltare, che forse questo è il mio modo di provare a capire oggi, una volta arrivato alla mezza età, per quale motivo a venticinque anni ero troppo impegnato a diventare adulto restando giovane e non mi sono mosso, non ho alzato un dito e messo il culo su un camion per andare a dare una mano dove davvero ce n’era bisogno (un bisogno non solo materiale, ma anche e forse soprattutto etico) a differenza di altre persone che ho poi avuto la fortuna di conoscere e di centinaia, migliaia di altri italiani.

Anže sorride. “So cosa vuoi dire,” mi risponde una volta che ho riabbassato gli occhi sulla gibanica “è successo anche a me e non mi perdono di non aver fatto nulla anche se avrei potuto. Sai, la reazione di una persona dipende da tanti fattori: puoi avere tanta adrenalina in corpo che affronti il problema e lo risolvi in un secondo: hai perso un braccio e continui a combattere. Ma se hai un mezzo dubbio allora ci rifletti sopra, pensi alla tua sicurezza e allora nemmeno aiuti una vecchietta ad attraversare la strada”.

Non so cosa rispondere, non so nemmeno se sia il caso di farlo. “Beviamoci sopra e pensiamo al futuro” gli dico sollevando il bicchiere, non sapendo che, senza averlo scelto, tra poco qualcuno ci riporterà nel passato al quale stiamo provando a voltare le spalle.

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Sergio Pilu
Sergio Pilu

Si guadagna da vivere come marketing manager di un’agenzia di comunicazione. Conosce e frequenta i Balcani per motivi professionali e personali da una quindicina d’anni e ha scritto due libri: Zona di alienazione su Čornobyl’ e Il Tunnel sul suo viaggio in Bosnia.