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Tradurre dall’albanese: intervista a Giovanna Nanci

Giovanna Nanci è traduttrice e docente, dottoressa di ricerca in studi linguistici, filologici e traduttologici con una tesi incentrata sull’analisi delle traduzioni italiane del romanzo Kështjella di Ismail Kadare. Lo scorso maggio ha vinto il premio di traduzione Fjala Fest 2024, organizzato da Albania Letteraria, l’Associazione Dora e Pajtimit e il Centro Culturale Slow Mill e finanziato dal Centro del Libro e della Lettura albanese, nel contesto della prima edizione di FjalaFest, il Festival della Letteratura Albanese.

Tra le opere da lei tradotte dall’albanese ricordiamo Sinfonia incompiuta di Grigor Banushi (Besa Muci Editore, 2023), Il dittatore in croce di Mira Meksi (A&B Editrice, 2023) e I libri di mio padre di Luan Starova (Rubbettino editore, 2018).
Cosa ti ha portato a scegliere l’albanese?

Probabilmente l’albanese ha scelto me… Mi ero appena iscritta al corso di laurea in Lingue e culture moderne dell’Università della Calabria e avevo iniziato a seguire i primi corsi, quando ebbi il fortunato incontro con la parlata albanese di Calabria, l’arbërishtja. Molti dei miei colleghi provenivano dalle comunità storiche albanesi della provincia di Cosenza, e tra di loro parlavano in questa “lingua” di cui fino ad allora non ero a conoscenza, ma che fin da subito mi affascinò, mi rubò il cuore. Ricordo che mi misi letteralmente a origliare…

Mi colpì per la sua particolare musicalità e bizzarria: riuscivo a cogliere qualche termine simile al dialetto calabrese o all’italiano, inserito all’interno di frasi dal significato a me ignoto e di cui non sapevo identificare la provenienza. Rimasi a dir poco incuriosita, in realtà fu una folgorazione. All’improvviso mi sembrò molto riduttivo concentrare i miei studi su lingue ben note come l’inglese, il tedesco e il francese, intorno a cui ruotava il mio piano di studi. Mi parve piuttosto doveroso approfondire la conoscenza del fenomeno linguistico, storico, culturale, antropologico della mia terra, rappresentato dalle comunità albanofone del Sud d’Italia.

E fu così che iniziai a frequentare i corsi di lingua albanese, filologia, dialettologia, letteratura, offerti dalla prestigiosa Cattedra di Albanologia diretta dal prof. Francesco Altimari. Grazie ai corsi di lettorato tenuti da docenti provenienti direttamente da Tirana, iniziai ben presto a formulare le prime frasi, e non vedevo l’ora di mettermi alla prova in situazioni comunicative reali. Dapprima ne ebbi la possibilità nella cerchia di amici e compagni di studi albanesi, alloggiati come me nel campus universitario; in seguito, frequentando, in agosto, il Seminario di Lingua, Letteratura e Cultura Albanese a Prishtina, in Kosovo.

Mi sentii accolta e attratta in questo mondo appena scoperto, non solo universitario, ma anche reale, umano, culturale, geografico. Le lezioni erano entusiasmanti; i docenti sapevano unire alla loro professionalità una buona dose di empatia e cordialità; l’offerta formativa prevedeva progetti e attività coinvolgenti. Con il passare del tempo conobbi persone e famiglie accoglienti e ospitali. Fu così che mi trovai a percorrere una strada da cui non avrei fatto più ritorno, e alla quale mi auspico di aggiungere giorno dopo giorno nuovi traguardi e nuovi compagni di viaggio.

giovanna nanci albanese
Come ti sei avvicinata alla traduzione?

Fin dai tempi delle versioni di latino alle scuole medie, incubo di molti miei compagni, devo ammettere che l’attività del tradurre mi elettrizzava, mi stimolava, accendeva in me curiosità e piacere della sfida. All’inizio lo facevo per gioco, traducevo testi di canzoni, brevi racconti, e da studentessa universitaria mi cimentavo con i materiali didattici per l’apprendimento della lingua e della letteratura.

Poi un bel giorno, fui selezionata a partecipare, assieme ad un gruppo di studenti italiani ed albanesi, ad un progetto di cooperazione tra Italia e Albania dedicato proprio alla traduzione letteraria. Si tratta del progetto PromoAlba, che prevedeva un corso di formazione intensivo della durata di un mese, tenuto da docenti e traduttori albanesi e italiani, presso l’Università del Salento, e coronato dalla traduzione e pubblicazione di un’opera letteraria. Io avevo da poco conosciuto di persona il compianto prof. Luan Starova, albanese della Macedonia del Nord, il quale mi aveva fatto dono di un suo romanzo, Kurbani ballkanik (Sacrificio balcanico).

La scelta dell’opera da tradurre, dunque, fu chiara. Sacrificio balcanico (Acustica edizioni, 2008) mi aprì le porte al mondo della traduzione. Fu un lavoro difficile, come prima esperienza, eppure mi piacque tanto, scoprii un mondo nuovo, una prospettiva per il mio futuro. Negli anni a venire mi dedicai a questo campo di studi con sistematicità, fino a conseguire il titolo di dottore di ricerca in Studi filologici, linguistici e traduttologici.

Qual è stato il primo impatto con l’Albania?

Il mio primo viaggio in Albania risale alla fine di agosto del 2004. Mi trovavo a Prishtina per il Seminario di Lingua, Letteratura e Cultura Albanese e, con due colleghe, una italiana (arbëreshe) e l’altra albanese, alla conclusione delle attività in Kosovo, ci recammo a Tirana, dove prendemmo parte al Congresso Internazionale di Studi del Sud-Est Europeo. Fu un viaggio in macchina che non dimenticherò mai, un percorso tortuoso su strade talvolta non asfaltate, che si inerpicavano sulle pendici delle montagne per poi riscendere a valle lungo sinuosità con margini a strapiombo. I guardrail erano un miraggio, ma, messa da parte la paura e dimenticati i criteri di sicurezza stradale, quel viaggio ebbe il suo fascino.

Guardavo incantata dal finestrino quei paesaggi mozzafiato, e sussultavo ogni volta che spuntava fuori dai cespugli qualche ragazzino con un cestino di frutta in mano, che cercava di racimolare qualche spicciolo con la vendita dei prodotti che la terra offriva e da cui la famiglia traeva fonte di sostentamento. Avevo appena lasciato il Kosovo, reduce dalla guerra ma determinato a risollevarsi, avevo visto una società che si adoperava, in ogni aspetto della vita privata e sociale, a cancellare le tracce dei conflitti, desiderosa di costruire un futuro prospero. E non sapevo cosa aspettarmi dall’Albania.

Avevo alle spalle un breve percorso di studi albanologici e non avevo ancora accesso alle fonti in lingua originale. Conoscevo per sommi capi la sua storia recente e sentivo quello che la tivù ci propinava. Ma come misi piede nella capitale, si aprì davanti ai miei occhi un mondo enigmatico e suggestivo, mi assalì un vortice di impressioni contrastanti, di emozioni inesplicabili persino a me stessa. Le prime immagini che fissai nella mia mente furono le strade polverose di Kamza, un sobborgo di Tirana, le macellerie con le carni appese fuori dalla bottega, la merce sui marciapiedi, il brulichio di gente, biciclette, motorini e macchine nell’afa insopportabile di quel fine agosto.

Poi lo spettacolo di piazza Scanderbeg con l’imponente monumento dell’eroe nazionale, il gigantesco mosaico del Museo Storico Nazionale, la Torre dell’Orologio con la Moschea di Et’hem Bey… E infine, a due passi da lì, Rruga Mine Peza, la strada dove si trovava il nostro albergo, modesto ma pulito, confortevole, accogliente, collocato proprio di fronte allo storico carcere Mine Peza, uno dei più antichi del Paese. Ricordo la semioscurità che regnava nelle stradine secondarie, in contrasto allo sfavillare di luci lungo il Boulevard Dëshmorët e Kombit, nella zona di Taiwan, di Blloku.

Ricordo, ahimè, i mucchi di immondizia e i marciapiedi dissestati, lungo i quali camminavano disinvolte ragazze eleganti con tacchi alti. Ricordo visi dolci ed espressivi di vecchiette accovacciate a vendere erbe aromatiche e fiori, e visi scarni e inariditi dal sole dei lustrascarpe. Ricordo la dignità negli occhi della gente che incrociavo per strada alle prese con la routine quotidiana, chi affrettandosi per andare al lavoro, chi con i sacchetti di plastica con il pane appena comprato, chi passeggiando con i propri coetanei prima di sedersi ad uno dei tanti caffè o alle panchine dei pochi parchi pubblici. E ricordo il trambusto di alcune strade trafficate, spietate e frenetiche; lo sguardo fiero di giovani a bordo di auto con i finestrini abbassati e la musica a palla.

Conservo così tante immagini di quella prima visita a Tirana, che faccio fatica a selezionarne alcune da condividere in questo breve spazio. Quella volta il mio soggiorno in Albania si concluse con la sola visita della capitale, ma aspettai con impazienza di poterci tornare per esplorare altre città, villaggi, zone rurali, regioni montuose e aree costiere. Ovunque, nonostante le ristrettezze economiche e la durezza della vita, vidi il bello dell’Albania, l’ospitalità, la cordialità, l’accoglienza, la laboriosità, la comunanza. Ovunque, inoltre, vidi quello che mi era rimasto impresso dal primo impatto con l’Albania, con la sua capitale, ossia i forti contrasti. Questa, tutt’oggi, a distanza di venti anni esatti dal mio primo viaggio nel Paese delle Aquile, rimane per me la chiave di lettura della realtà albanese.

Parlaci della tua parola preferita in albanese

Kënaqem, un verbo così ricco di significato, espressivo, carico di positività e diletto, emanazione dell’indole gioviale e frizzante che personalmente associo agli albanesi. A prima vista sembra esprimere un concetto semplice, facilmente traducibile, ricorrendo in italiano a verbi quali: rallegrarsi, divertirsi, godere, appagarsi, compiacersi, essere soddisfatto, oppure accontentarsi. In realtà, quando mi imbatto in esso nei romanzi che leggo o che traduco, o nelle conversazioni con parlanti nativi, avverto nel suo valore semantico una carica emotiva vigorosa, una forza espressiva che emana dallo stato d’animo profondo del soggetto a cui si riferisce.

La sensazione è ancora più marcata se lo si sente pronunciato, espresso a voce, con tutta l’enfasi e il pathos che derivano dalla stessa componente fonologica della parola, in cui predomina la vocale centrale aperta /a/ portatrice di accento. Mi piace tanto sentire: “U kënaqa!”, che associo all’espressione “mi sono scialato” tipica dei nostri dialetti meridionali.

giovanna nanci albanese
La parola secondo te più difficile e/o impossibile da tradurre dall’albanese è…

besa, indubbiamente. Per quanto noi traduttori ci sforziamo, credo che nessuna parola italiana possa inglobare tutto il retaggio semantico, culturale, simbolico, mitico, racchiuso in questo termine albanese. Che la si traduca come parola data, parola d’onore, promessa, la besa albanese è molto di più: è la parola data per qualcosa di importante, la parola d’onore di portare a termine ad ogni costo un impegno assunto, la promessa fatta con desiderio e certezza di mantenerla.

La besa è anche la convinzione circa la sincerità e l’onestà di qualcuno, come nell’espressione “Ka besë”, ossia gode di “besa”. Il culto della parola data, la besa, costituisce il fondamento del Kanun, il diritto consuetudinario albanese, che regolava tutti gli aspetti della vita nelle regioni montuose dell’Albania del Nord, tra cui la pratica della vendetta di sangue, anch’essa soggetta al principio della besa, ovvero il giuramento che la famiglia dell’ucciso faceva all’uccisore e alla sua famiglia, di non vendicare la morte per un certo periodo di tempo; ed anche la protezione che una persona assicurava al suo amico per tutto il tempo della sua ospitalità.

La besa è il testamento morale degli albanesi fin dal periodo mitologico, come testimoniano due ballate leggendarie, quella della donna murata, leggenda di Rozafa, e quella incentrata sul motivo del revenant, ossia la ballata di Costantino e Doruntina, tra l’altro molto diffusa presso le comunità arbëreshe d’Italia.

Raccontaci della tua prima opera tradotta dall’albanese

Come già accennato, il primo romanzo che ho tradotto si intitola Kurbani ballkanik, in italiano Sacrificio balcanico (Acustica, Lecce, 2008) e la traduzione è stata realizzata nell’ambito del già menzionato progetto PromoAlba. La scelta di tradurre questo romanzo è dettata da ragioni personali, emotive, in quanto il libro in questione mi era stato regalato dall’autore stesso, in occasione di un convegno organizzato dalla mia università.

L’incontro con Luan Starova mi aveva segnato particolarmente: era il primo scrittore albanese di cui facevo conoscenza di persona, ero rimasta ammaliata dalla sua gentilezza, pacatezza, dalla sua cultura e modestia allo stesso tempo, dal suo tono di voce discreto e penetrante. Inoltre, la tematica trattata era consona al mio percorso di studi e ben si profilava nell’ambiente universitario da cui provengo, in quanto il comune denominatore erano gli arbëreshë. Arbëreshë sono due personaggi fondamentali del romanzo di Starova, un anziano professore di antropologia e il suo allievo, inquadrato come giovane antropologo in una missione umanitaria nei Balcani, nel corso della quale una squadra di esperti internazionali si è confrontato con l’Homo Balcanicus, personificato da una tribù primitiva isolata nella gola di un vulcano spento.

Quando iniziai a tradurre le prime frasi, ricordo di averle scritte e riscritte svariate volte, anche su fogli di carta. Mi pareva che questo mi aiutasse a riflettere di più e trovare la soluzione migliore. Non disponevo del formato elettronico dell’opera, come oggi avviene normalmente, e ricordo ancora quanto ho faticato, all’inizio, a trovare il modo più efficace per scorrere con gli occhi il libro e il computer senza perdere troppo il filo.

Come prima esperienza traduttiva, ricordo l’insicurezza, il timore di non essere all’altezza, di restare troppo legata all’originale o al contrario di distaccarmene più del dovuto. Di certo non osai molto, mantenni un atteggiamento di rispetto per l’opera in sé e per l’autore, cosa che del resto faccio tuttora, dopo qualche esperienza traduttiva in più e maggiore grado di formazione teorica e consapevolezza pratica. L’insicurezza che nutrivo mi spinse a interpellare direttamente l’autore su determinate questioni interpretative e su certe scelte traduttive. Starova mi dimostrò tutta la sua fiducia e, grazie alla sua disponibilità a fornirmi i chiarimenti richiesti, superai con successo i primi ostacoli del tradurre.

Qual è il tuo rapporto con gli autori che scrivono in albanese?

Come ho appurato fin dall’inizio della mia esperienza di traduttrice, gli autori albanesi, le cui opere vengono tradotte in italiano, come nel mio caso, ma ritengo valga per qualsiasi altra lingua, sono molto ben disposti nei confronti dei traduttori. Ho avuto la fortuna di lavorare con scrittori della portata di Ylljet Aliçka, Mira Meksi, Grigor Banushi, oltre che di Luan Starova, di cui ho già raccontato, e con ciascuno di loro si è instaurato un rapporto che supera i semplici legami professionali.

Pronti a rispondere alle mie domande e ai miei dubbi, disponibili a chiarimenti di tipo linguistico nonché culturale, aperti al dibattito e al confronto, gli scrittori e la scrittrice con cui ho avuto il piacere di dialogare sono l’esempio lampante della sintonia che si può creare tra l’autore e il suo traduttore. Ho avuto modo di incontrare di persona ciascuno di loro, c’è sempre tanta emozione da parte mia, è un vero piacere e un onore poter dialogare faccia a faccia con lo scrittore di cui ti sei fatto portavoce, nel quale ti sei immedesimato per tradurre il suo libro, a cui hai dedicato mesi e mesi di lavoro, ed è gratificante accorgersi della sua stima e riconoscenza per aver permesso ad una sua opera di valicare gli angusti confini della madrepatria e proiettarla su scenari più ampi e rilevanti.  

Che genere traduci più spesso e/o quale genere ti interessa di più?

Mi occupo esclusivamente di narrativa, non mi sento predisposta a tradurre poesia, non ho compiuto i doverosi studi a riguardo. E non mi piace cimentarmi o improvvisarmi poetessa senza sentirne la vocazione. Per quanto riguarda la narrativa, invece, adoro la letteratura albanese, gli autori contemporanei in special modo, perché in questi romanzi trovo un connubio perfetto tra narrazione storica e racconto fantastico, mito e leggenda, indagine psicologica e riferimenti socio-culturali, drammatizzazione e lirismo, introspezione e universalità, ironia, satira, thriller.

Il leitmotiv di gran parte della produzione letteraria contemporanea albanese rimane il regime dittatoriale comunista, affrontato da varie prospettive, in differenti generi letterari, con stili e forme molteplici. È un tema che mi interessa particolarmente, perché avverto nella società albanese e nel singolo individuo la necessità di sbarazzarsi di un pesante fardello, di dire al mondo quello che per oltre quarant’anni hanno dovuto sopportare senza farne parola con nessuno e, forse, senza neppure ammetterlo a se stessi.

È l’ora di fare i conti con i fantasmi del passato, di confessarsi, o piuttosto di confidarsi, aprirsi, sfogarsi, come se il pubblico dei lettori, e ancor meglio il pubblico straniero, fosse uno psicologo che ti può dare il sollievo e la cura per superare i tuoi traumi. E mi entusiasma particolarmente quando intorno a questo tema storico si riesce a tessere romanzi di alto livello, nei quali la realtà e la fantasia si fondono e si completano, si alternano e si intersecano, portando il lettore a vagare in universi misteriosi ma pur sempre intrisi di verità.

Ho avuto la fortuna e l’onore di tradurne uno dal valore inestimabile, Diktatori në kryq di Mira Meksi, in italiano Il dittatore in croce (A&B Editrice, Acireale, 2023), che mi è valso il premio alla traduzione del FjalaFest, il festival della letteratura albanese svoltosi a Milano il 18 e 19 maggio scorsi, promosso, tra gli altri, dalla brillante rivista culturale italiana, interamente dedicata alla letteratura albanese e albanofona, Albania Letteraria di Anna Lattanzi.

giovanna nanci albanese
Il nome di un’autrice o un autore che vorresti portare in Italia e/o che avresti voluto portare in Italia

Sarei dovuta nascere almeno trent’anni prima e con la fortuna di trovarmi nel posto giusto e nel momento giusto, quando la prima opera di Ismail Kadare venne tradotta in italiano… Ironia a parte, l’attività di traduzione in lingua italiana delle opere del colosso della letteratura albanese contemporanea rimane una delle note dolenti del nostro panorama culturale nei riguardi dell’Albania.

Come sappiamo, Kadare è stato a lungo tradotto in italiano a partire dalle traduzioni in francese, realizzate dal suo primo traduttore in assoluto, Jusuf Vrioni. Solo in seguito sono state realizzate traduzioni direttamente dall’originale albanese, ma nessuno dei suoi traduttori italiani ha raggiunto il livello di notorietà e credito di cui godono, ad esempio il suo traduttore tedesco, Joachim Röhm, oppure quello spagnolo, Ramón Sánchez Lizarralde, o inglese, David Bellos.

In Italia si sono cimentati in questa impresa vari traduttori, il che pregiudica innanzitutto una certa continuità e omogeneità della linea traduttiva che percorre le opere tradotte, linea che verosimilmente varia da un traduttore all’altro. A questo punto, pensare di ritradurre le opere di Kadare già esistenti in italiano può sembrare un miraggio, ma ciò che ritengo auspicabile e doveroso è cercare di salvare il salvabile, innanzitutto affidando le prossime traduzioni a chi di competenza, e in secondo luogo intervenendo con ritraduzioni laddove la prima non risulti adeguata. E di certo non mancano in Italia gli studiosi capaci di esprimere giudizi razionali e fondati sulla qualità delle opere tradotte.

Perché dedicarsi alle cosiddette lingue “minori”?

A tal proposito, mi piace molto la definizione data dallo studioso israeliano Even-Zohar, ideatore del “polisistema letterario”, il quale fa la distinzione tra “sistema culturale periferico” e “sistema culturale centrale”. Con tale distinzione spiega il rapporto tra lingue e letterature altrimenti definibili maggiori o minori, soffermandosi sul ruolo della traduzione in questo processo di comunicazione tra culture appartenenti a sistemi differenti. Il fascino di occuparsi di culture periferiche, della loro lingua e letteratura, consiste nell’arricchire la cultura di arrivo di elementi esotici, innovativi, dinamici.

Le lingue minori hanno un potenziale inesplorato, sono uno scrigno di gemme preziose a livello lessicale e non solo, e l’albanese ne è l’esempio. Basti pensare a quanti termini ed espressioni del lessico albanese attuale siano la derivanza dei contatti, di tipo e natura differenti, che il popolo albanese ha intrattenuto nel corso di secoli e millenni con altre popolazioni, lingue, culture e religioni. Quando si traduce letteratura di alto livello si scoprono perle di questo genere e bisogna essere in grado di condividere tali scoperte con il lettore d’arrivo. È qui che si mostra l’abilità del traduttore. Oppure ci si imbatte nell’intraducibilità o, peggio ancora, si incappa nell’appiattimento delle particolarità.

Ciò che denoto traducendo dall’albanese è che l’editoria italiana non ha ancora imparato a gestire i diritti e i doveri delle varie componenti in gioco. In Italia si traduce molto dall’albanese negli ultimi anni, ma spesso trascurando criteri fondamentali come la selezione ponderata delle opere da tradurre, la scelta coscienziosa di traduttori competenti, la revisione accurata da parte di redattori meticolosi, la strategia adeguata delle case editrici per promuovere l’opera al di fuori della nicchia riservata a pochi cultori o alla diaspora. Senza tralasciare l’aspetto economico che vi ruota attorno.

In molti casi ci si affida ai fondi dei progetti europei, per cui una piccola casa editrice sfrutta quel finanziamento, pubblica il libro con una certa tiratura, e dopo un po’ tutto finisce nel dimenticatoio. E i traduttori, da parte loro, entrano in questo circolo vizioso che si viene a creare: le risorse finanziarie scarseggiano, le tariffe sono basse, un traduttore improvvisato e inesperto accetta queste condizioni perché intende mettersi in gioco, maturare esperienza e farsi notare, lo scrittore è soddisfatto perché il suo libro è stato tradotto nella “prestigiosa” lingua italiana, l’editore si è aggiudicato il finanziamento, e… tutti vissero felici e contenti.

Il problema è che, se a qualcuno – un professionista, un esperto, un albanologo – viene in mente di approfondire la questione, tutto rischia di crollare come un castello di sabbia! Ecco come intendo io lo svantaggio di lavorare con una lingua “minore”, ma per fortuna, a mio modo di vedere, il vantaggio di sentirsi appagati spiritualmente travalica le problematicità.

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Giorgia Spadoni
Giorgia Spadoni

Traduttrice, interprete e scout letterario. S'interessa di storia e cultura est-europea, in particolar modo bulgara. Ha vissuto e studiato in Russia (Arcangelo), Croazia (Zagabria) e soprattutto Bulgaria, specializzandosi all'Università di Sofia “San Clemente di Ocrida”. Tra le collaborazioni passate e presenti East Journal, Est/ranei, le riviste bulgare Literaturen Vestnik e Toest, e l'Istituto Italiano di Cultura di Sofia. Nel 2023 è stata finalista del premio Peroto per la migliore traduzione dal bulgaro in lingua straniera e nel 2024 vincitrice del premio Polski Kot.