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Flama di Tom Kuka: storie di epidemie e delitti a Tirana

Il 26 maggio scorso è uscito anche in Italia l’ultimo romanzo dello scrittore albanese Tom Kuka (alias Enkel Demi), Flama. Tradotto e pubblicato dalla casa editrice salentina Besa Muci, il libro ha ottenuto il prestigioso riconoscimento dell’European Union Prize for Literature 2021.

Ambientato nella Tirana della prima metà del Novecento, il romanzo racconta di una città alle prese con una epidemia sconosciuta. Una Calamità, come soprannominata dagli stessi abitanti, causata probabilmente dai topi che, a migliaia, hanno invaso la città prendendo il posto dei suoi stessi cittadini. A completare l’ingarbugliato e a tratti apocalittico quadro concorre una serie di efferati omicidi a cui l’investigatore Di Hima prova a trovare una soluzione.

La prima vittima è una veggente nana: la “zingara della Riva del Fiume” che vive in condizioni di estrema povertà appena poco fuori la città. A dare la notizia della morte della donna a Di Hima è Tom Kuka stesso, monatto che recupera dalle case i cadaveri delle vittime della Calamità. La donna era nota in tutta Tirana per la pratica della caffeomanzia, l’arte di predire il futuro e scoprire i segreti delle persone attraverso la lettura dei fondi di caffè rimasti nelle tazzine. Proprio per questa sua arte la veggente veniva spesso interpellata dalle donne della città, intente a scoprire le nefandezze dei proprio mariti. E proprio per questo era odiata da molti che vedevano in lei la rovina del proprio matrimonio.

La “zingara della Riva del Fiume” non è però l’unica vittima della mano dell’uomo. Dopo di lei a farne le spese è la prostituta Sabaethi, amante del vedovo dottore Spiro Kutleshi. Entrambe ritrovate con la gola tagliata da un coltello da lavoro.

Di Hima si ritrova così a indagare sui crimini commessi dall’uomo in un momento in cui la Calamità ha azzerato qualsiasi forma di vita sociale e di serenità, trasformando Tirana in un luogo desolato, abbandonata anche dagli uccelli.

Sarà proprio la risoluzione del caso a riportare la vita in città, liberandola dalla Calamità e dalla scelleratezza dell’uomo.

I temi trattati

Flama non è soltanto un romanzo “giallo”, concentrato sulla risoluzione di un crimine che sembra gettare scompiglio solo nella mente Di Hima, lasciando quasi del tutto indifferente quel che resta della popolazione alle prese con l’epidemia. Sono molti i temi trattati nel libro, il cui tratto distintivo è senza dubbio il continuo contrasto tra scienza e credenze popolari, tra legge e crimine.

Da una parte la ragione, la conoscenza scientifica, incarnate dai personaggi principali del romanzo. Primo su tutti Spiro Kutleshi, che con il suo sguardo da medico fornisce a Di Hima una veloce quanto precisa diagnosi del taglio alla gola inflitto alle vittime. Ma Kutleshi è anche colui che cura, o prova a curare, i malati con le conoscenze mediche di quel periodo trasferendosi nel lupanare cittadino.

Dall’altra parte invece, le tradizioni, le credenze popolari, il senso comune fatto di leggende e miti. Come quelli che guidano le azioni di Sadija, moglie di Di Hima, in apertura di romanzo. Impegnata a tagliare i capelli ai propri figli con le forbici per tosare le pecore, Sadija fornisce spiegazioni di questo suo gesto attraverso le credenze tramandate dalla nonna:

“E’ necessario, perché i pidocchi ti succhiano il sangue, perciò i bambini sognano tutte le notti i vampiri. Ora che hanno le teste come scodelle, il sole gliele scalderà meglio e sogneranno margherite in abbondanza”.

E ancora:

“Non bisogna lasciare che il vento si porti via i capelli tagliati, altrimenti ai bambini scoppia la testa. […] E neppure si seppelliscono, perché gli farebbe male la testa”.

Ma è la caffeomanzia la più nota tradizione che accompagna il libro. Ancora oggi diffusa in tutta la regione dei Balcani, quest’arte sembra essere per Di Hima l’unica ancora di salvezza. Proprio lui che ha fatto della scienza investigativa, studiata in quelle università in cui “non c’era possibilità che […] ti appioppassero una tazzina col fondiglio rimasto dalla cottura su cenere”, la sua ragione di vita.

Ed è sempre Di Hima che deve fare i conti con un’altra perenne contrapposizione: quella tra il reale e i sogni. O per meglio dire gli incubi che la notte ossessionano l’investigatore alla ricerca di risposte che solo le ombre sembrano potergli offrire.

Quelli tra scienza e tradizione, tra reale e sogni, non sono però i soli conflitti presenti nel romanzo. Altro filo conduttore di tutta la storia è il contrasto tra legge e crimine, tra virtù e dissolutezza. La stessa Calamità viene letta dagli abitanti come punizione per i peccati commessi, per il degrado morale dei propri comportamenti. L’unico strumento di salvezza resta dunque la legge, incarnata da Di Hima, la sola capace di riportare ordine in una città ormai completamente stravolta, di punire il crimine più grave commesso da un uomo che si comporta esattamente come la Calamità, togliendo la vita ai propri simili.

Immancabili, inoltre, i riferimenti alla religione che restituiscono l’immagine di una Tirana multiconfessionale in cui il sentimento religioso non produce separazione e isolamento ma, al contrario, solidarietà e comunanza senza lasciare spazio a fenomeni di radicalismo. Ne sono una dimostrazione la presenza della Moschea Et’hem Bey e quella della chiesa cristiana, così come il rapporto tra un musulmano (Di Hima) e un cattolico (Tom Kuka) che lavorano a stretto contatto mostrando una sincera amicizia.

La scrittura

La narrazione di Tom Kuka, da cui emerge tutto il fascino che hanno sull’autore i miti e le storie raccontate dagli antenati, si presenta articolata e mai banale, ricca di descrizioni dettagliate, tanto dei personaggi quanto dei luoghi.

Precise e minuziose sono ad esempio le rappresentazioni degli ambienti in cui si svolge la storia, come quella della casa della nana veggente, così piccola da costringere gli ospiti a curvarsi e “piena di tappeti che ricoprivano il pavimento in terra battuta”, o ancora le capanne in riva al fiume, “costruite con tutto ciò che era a portata di mano”.

Magistrali anche le descrizioni di una Tirana travolta dall’epidemia, in cui “le stradine erano silenziose” e in cui persino il Bazar è “pervaso da un silenzio raccapricciante”. Immagini che rimandano immediatamente a quanto vissuto due anni fa durante le prime fasi della pandemia, in cui tutto sembrava essersi fermato e il silenzio e la desolazione la facevano da padrone.

E forse sta proprio qui il successo di questo libro. Nella capacità di raccontare una storia antica ma che potrebbe benissimo essere ambientata ai giorni nostri, in cui scienza e tradizioni popolari si mischiano, in cui malattie misteriose trasformano il mondo per come lo conosciamo, lasciando aperti numerosi interrogativi ma anche la speranza di una nuova rinascita simboleggiata dal ritorno degli uccelli.

Foto di copertina: Albanianews

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Marco Siragusa
Marco Siragusa

Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.