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Il dibattito sul diritto all’aborto in Russia

Le recenti restrizioni del Cremlino nei confronti dell’aborto hanno portato al centro del dibattito di attiviste e attivisti russi, specialmente nel contesto della “Resistenza femminista contro la guerra” (FAR), la questione dei diritti riproduttivi e di come, sin dal periodo sovietico, il declino della natalità nel paese sia stato visto come una minaccia alla sicurezza nazionale.

In questo articolo ripercorremmo, quindi, la storia del diritto all’aborto in Russia e dei dibattiti sociali ad esso legati: partendo dalla morale socialista, passeremo a discutere della sua evoluzione attraverso le prime influenze del femminismo internazionale, sino ad arrivare alla letteratura russa contemporanea e, infine, alla mobilitazione del FAR contro il conservatorismo del Cremlino tramite iniziative come la campagna “Combatti tu, partorisci tu!” (Сам воюешь, Сам рожай!).  

L’aborto nella storia recente

Sin dalla metà degli anni Venti, il diritto all’aborto in Urss, inizialmente garantito, era stato posto a restrizioni sempre più intransigenti. La classe politica, infatti, pensava che il crescente numero di interruzioni di gravidanza fosse connesso ai problemi di bassa natalità del neonato stato sovietico. Nel 1936, questa convinzione ne portò alla completa abolizione. Ad essa, fu accompagnata la nuova immagine staliniana della donna/madre sovietica e del suo enorme e necessario contributo, il fare figli, alla gloria e crescita dello stato: 

“Nella nostra vita, non ci può essere un divario tra il personale e il pubblico. La donna sovietica ha gli stessi diritti di un uomo… Tuttavia, la nostra donna sovietica non è esente dal grande e onorevole dovere che la natura le ha dato: deve partorire.”  

Naturalmente, ad essa era legata una campagna di crescente stigmatizzazione sociale dell’aborto come atto immorale e vergognoso. Nonostante ciò, le donne non smisero, anzi, fecero sempre più affidamento a pratiche di interruzione di gravidanza che, perlopiù clandestine e quindi rischiose per le insufficienti condizioni sanitarie, portarono a un aumento preoccupante della mortalità femminile. L’aumento statistico degli aborti era anche legato al fatto che, a causa della scarsa reperibilità di contraccettivi e preservativi (prodotti nel mondo occidentale) e della totale assenza di educazione sessuale, esso veniva utilizzato come principale metodo anticoncezionale.

Nel 1955, durante il processo di destalinizzazione, la decisione di Nikita Chruščëv di reintrodurre il diritto all’aborto non portò a grandi cambiamenti sulla disponibilità di aborti sicuri né sulla sua visione negativa a livello sociale, che era legata a una crescente consapevolezza dell’impossibilità delle donne di scegliere metodi più sicuri per prevenire la fecondazione e vista (in alcune circostanze) anche come un segno di un “basso livello culturale” del paese.  

La cremlinizzazione del diritto, e le prime azioni di protesta

A seguito della caduta del blocco socialista e dei turbolenti anni Novanta, nel neonato stato russo (come in molti paesi dell’Europa centro-orientale) la discussione sull’aborto si poneva ancora e principalmente nell’ottica della sicurezza nazionale. Difatti, sia nel corso del primo mandato del presidente Vladimir Putin che di quello successivo di Dimitrij Medvedev, il dibattito antiabortista era associato al pericolo del calo della natalità e della preservazione dello stato russo. La discussione politica era poi accompagnata dal ruolo sempre più dominante della Chiesa ortodossa russa e dalla rivendicazione, promossa dal patriarca Kirill, della necessità del ritorno della famiglia tradizionale e dei valori cristiani al centro dell’economia morale del paese. 

Allo stesso tempo però il dibattito sociale, anche se ancora non differiva in modo radicale da quello sovietico, cominciava a risentire dell’influenza del femminismo internazionale. Nel 2011, infatti, la proposta della Chiesa e di alcuni politici conservatori di approvare restrizioni severissime sull’interruzione di gravidanza scatenò quello che è definito da molti il primo movimento “femminista” della storia della Russia post-sovietica.  

Quando si parla di femminismo in Russia si parla di una realtà molto diversa dal femminismo internazionale. Infatti, per molti anni, la stessa definizione di “femminismo” era considerata troppo occidentale e non era utilizzata dalle stesse persone che, diremmo noi, erano coinvolte in attività femministe. Anche adesso, il femminismo russo si rifà sì al femminismo internazionale, ma rimane comunque simbioticamente connesso al proprio contesto sociopolitico ed economico nazionale. Questo, invero, costituisce sia i limiti che la forza di movimenti quali la “Resistenza femminista contro la guerra” (FAR). In letteratura, si possono incontrare anche interessanti dibattiti sulla diffusione, inoltre, del postfemminismo. 

L’associazione non governativa russa per la popolazione e lo sviluppo (RAPD) e un collettivo di gruppi femministi lanciarono infatti una petizione online “Combattete gli aborti, non le donne!”, in cui si reiterava la necessità di garantire alle donne l’accesso agli anticoncezionali e, quindi, la possibilità di non abortire. La campagna, in modo apparentemente paradossale, si dichiarava “antiabortista” e richiedeva allo stato di rispettare il patto sociale tra donne e governo (e tra donne e uomini) già esistente in epoca sovietica, in cui le donne avrebbero contribuito a crescere i figli della nazione in cambio di garanzie e di tutele sociali ed economiche alle famiglie.

Le rivendicazioni contro il crescente conservatorismo delle istituzioni pubbliche risentivano, quindi, dell’influenza del passato. Allo stesso tempo, le attiviste facevano già riferimento al linguaggio del femminismo internazionale, per esempio, reinterpretando e utilizzando l’immagine-simbolo degli aborti illegali, la gruccia, delle lotte per i diritti riproduttivi degli Stati Uniti.  

Gruccia come simbolo di protesta contro l'interdizione del diritto all'aborto, dal sito femminista "Ona" ("Lei"), 2015
Gruccia come simbolo di protesta contro l’interdizione dell’aborto, dal sito femminista Ona (Lei), 2015

Negli anni, queste realtà entrarono ancora di più in contatto con il femminismo globale tramite i social media e, in alcuni casi, assunsero posizioni più liberali che univano alle rivendicazioni locali le richieste dei movimenti “pro-scelta” americani e della libertà individuale delle donne.

Nel 2015, dopo una nuova campagna conservatrice contro il diritto all’aborto, le nuove femministe lanciarono quindi un’iniziativa online su YouTube, intitolata #pravonaabort, in cui un centinaio di donne veniva intervistata singolarmente allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e mostrare che vi fosse una linea comune a protezione del diritto nonostante le diverse opinioni delle partecipanti, che spaziavano dal reiterare la necessità post-socialista del patto sociale tra donne e governo per non abortire a opinioni più “occidentali”.  

La crescita del dibattito portò all’ampliarsi della grande discussione intragovernativa sull’influenza delle organizzazioni internazionali e straniere, accusate di diffondere perversi valori occidentali già attraverso la “propaganda LGBT” (perseguita criminalmente nel 2013), che in questo caso contribuivano, attraverso il femminismo, al calo delle nascite, intaccando la sopravvivenza della Russia.  

Look at him di Starobinec 

Nel 2017 la Federazione Russa approvò una legge sulla decriminalizzazione della violenza domestica, accolta da grandi critiche da parte della comunità internazionale e degli attivisti locali. Nonostante ciò, nell’agosto 2017, il presidente Vladimir Putin aveva invece rifiutato una mozione, firmata da più di un milione di persone e promossa dal patriarca, che richiedeva che al feto fosse garantita la medesima protezione legale di un individuo e che, perciò, l’interruzione di gravidanza potesse essere punibile per legge.

La proposta trovava risonanza in molte regioni della Russia, dove organizzazioni come “Pokrov” avevano cominciato già da un anno a militare attivamente per “proteggere la maternità” e, quindi, per la criminalizzazione totale dell’aborto, e dove la Chiesa promuoveva campagne (tra cui il “giorno senza aborti” a Jaroslav per commemorare “l’eccidio dei bambini di Betlemme da parte del Re Erode”) per sensibilizzare l’opinione pubblica e salvaguardare la crescita demografica del paese. 

Tuttavia, né il rifiuto delle istituzioni alla proposta né la rinnovata promessa di favorire le nascite creando, invece, una rete più ampia di supporto e welfare sociale per madri e famiglie, aveva avuto alcun effetto rassicurante sul futuro dei diritti delle donne in Russia. Infatti, già da anni l’autrice del disegno di legge contro la propaganda omosessuale, Elena Mizulina, aveva introdotto al senato diverse proposte per l’abrogazione dell’aborto che risonavano molto negli ambienti conservatori. Inoltre, nonostante il diritto all’aborto fosse garantito, la realtà si mostrava molto diversa. 

Nel novembre 2017, infatti, venne pubblicato il libro-inchiesta di Anna Starobinec, Look at him (Posmotri na nego). Il testo racconta in prima persona l’esperienza dell’autrice, costretta a recarsi in Germania per abortire un feto che, con una malattia renale policistica, era destinato a nascere morto. Starobinec descrive in modo crudo il trattamento riservato nelle cliniche e nei forum online a lei e alle altre madri-assassine, accusate di non rispettare la vita umana e di voler uccidere i loro bambini (“scherzi della natura”) abortendoli. Con la capacità immaginifica di un’autrice avvezza allo scrivere romanzi horror, descrive sé stessa e le altre donne a cui è negata qualsiasi forma di empatia come “ratti, brulicanti nei seminterrati”, che il più delle volte sono costrette a proseguire una gravidanza pericolosa, in attesa di una futura “disinfestazione”: un parto indotto o un aborto tardivo, solitamente, in condizioni disumane.  

La maternità, in Russia, è legittima solo se nella sua forma ideale, e una madre è tale solo se partorisce un figlio sano. Nonostante vi siano ragioni genetiche per le malformazioni fetali, lo stigma sociale è talmente roboante che Starobinec viene più volta attanagliata da sensi di colpa che rivolge a sé stessa e al marito, che poi si trasformano e si sovrappongono a figure materne apparentemente meno degne di lei, che si sarebbero meritate la sofferenza di un figlio mai nato. Invece, all’estero riceve un trattamento umano (a volte, anzi, quasi troppo freddo e meccanico) e riesce infine a terminare la gravidanza, anche se ormai già nel secondo trimestre.  

Nell’ultima parte del romanzo, l’autrice conduce un’inchiesta giornalistica sull’aborto in Russia, intervistando donne che hanno sofferto simili esperienze e medici e infermieri tedeschi specializzati in questo tipo di procedure. Infatti, nessun dottore russo ha accettato di parlarle. Secondo la critica, i suoi resoconti sono molto simili alle descrizioni della ginecologia nella tarda epoca staliniana de “L’enigma di Kukockij” (The Kukotsky Enigma), romanzo di Ljudmila Ulickaja che affronta la complessità morale della scienza riproduttiva nel periodo sovietico.  

La “Resistenza femminista antiguerra” e il diritto all’aborto in Russia

Il dibattito sull’aborto ha assunto una nuova forza a seguito dell’invasione russa su larga scala in Ucraina, nel mutato contesto dell’opposizione a Putin. Infatti, alla notizia del raggiungimento del minimo storico dell’indice di natalità in Russia nel 2023 (anche più basso di quello del 1943-1944), il governo ha deciso di “limitare gradualmente il diritto all’aborto, ostacolandone l’accesso e minacciando di escludere gli aborti dalla copertura dell’assicurazione sanitaria obbligatoria”.

La “Resistenza femminista antiguerra” (FAS), movimento nato nel 2022 per denunciare le azioni efferate dello stato russo e l’occupazione dell’Ucraina, si è dunque mobilitato a favore del diritto all’aborto con posizioni contigue alla tradizione del femminismo internazionale, trasposte con successo nel contesto russo.  

Il giorno dopo l’attacco russo all’Ucraina del 24 febbraio 2022, attiviste russe si sono riunite nel “Movimento femminista antiguerra” (FAS) e hanno pubblicato un manifesto contro le azioni efferate dello stato russo e l’occupazione dell’Ucraina. In esso, alla violenza militare viene sovrapposta la violenza di genere che, infatti, è dimostrato aumenti notevolmente durante i conflitti. Inoltre, la retorica di difesa dei "valori tradizionali", uno dei pretesti con cui è stato giustificato il conflitto, viene analizzata come strumentale nel soffocamento del dissenso interno, nello sfruttamento delle donne e nella “repressione statale contro coloro il cui stile di vita, autoidentificazione e azioni non sono conformi alle ristrette norme del patriarcato”. E, in effetti, le donne russe presto hanno dovuto fare i conti con nuove restrizioni sul diritto all’aborto.

Leggi anche: La Resistenza femminista russa contro la guerra

Nella petizione a favore del diritto, le femministe reiterano l’illogicità del legare obiettivi demografici all’interdizione dell’interruzione di gravidanza: infatti, in Russia non ci è mai stata una crescita demografica nonostante il numero degli aborti sia diminuito in modo costante negli anni grazie alla disponibilità degli anticoncezionali e alla consapevolezza maggiore sulla prevenzione nella società. Inoltre, come già avvenuto in epoca staliniana, vi è il rischio che l’interdizione del diritto porti solo “allo sviluppo di un mercato sotterraneo per la fornitura di servizi sanitari” e all’incremento della mortalità femminile dovuta alle condizioni igieniche insufficienti. 

Petizione per il diritto all’aborto del FAR (Instagram)

In sostanza, meno aborti non significano più bambini, ma meno aborti causeranno anche innegabili danni aggiuntivi alle donne russe, e quindi all’intera società russa. Infatti, in linea con la sensibilità del femminismo internazionale, FAR sottolinea quanto l’incapacità di disporre autonomamente del proprio corpo possa mettere le donne in una posizione vulnerabile, specialmente in un contesto in cui i casi di violenza domestica e di violenza sessuale sono sempre più in crescita.

Ma tutto ciò non preoccupa i parlamentari russi: il benessere delle donne e delle madri interessa solo quando si avvicinano le elezioni. Per il resto, il governo russo dà contentini simbolici: ad esempio, invece di dare alle madri un vero sostegno sociale ed economico, conferisce il titolo di madri eroine a chi ha tanti figli. Noi donne russe non siamo incubatrici né proprietà dello stato. Ad ogni parlamentare che cerca di guadagnare punti politici sul tema dell’aborto, vogliamo dire: combatti tu, partorisci tu. 

I russi “si estinguono” non a causa dell’aborto, ma a causa del basso tenore di vita, della povertà, della sensazione di insicurezza e della mancanza di speranza nel crescere i figli in un paese continuamente in guerra, in cui il militarismo e il patriarcato sono imperanti. Infatti, la Russia ha promosso pratiche di militarizzazione dell’infanzia sin dal 2014 (e non, come molti potrebbero pensare, dal 2022). Nei curricola delle scuole, infatti, erano previsti lezioni di lancio delle granate e incontri con i “veterani del Donbass”, che raccontavano le loro esperienze di guerra (di occupazione) in Ucraina e insegnavano ai bambini a caricare armi automatiche. Dall’inizio dell’invasione su larga scala sono state poi introdotte lezioni di propaganda, i famigerati “discorsi su ciò che è importante” (Разговоры о важном), e parate militari in onore dell’operazione speciale.  

Il calo dei tassi di natalità, quindi, viene presentato come la reazione della società alla politica guerrafondaia del paese:  

Abbiamo il diritto alla scelta e alla giustizia riproduttiva, sia all’aborto che alla maternità. Abbiamo il diritto a uno stato pacifico e libero in cui non è terribile dare vita a una nuova persona.

Con questa petizione, il movimento ha infine lanciato la campagna “Combatti tu, partorisci tu!” (Сам воюешь, Сам рожай!) che a cadenza settimanale descrive la pressione sui diritti riproduttivi nelle diverse regioni russe. Ad essa, si legano anche manifestazioni e picchetti fuori e dentro la Russia che, ancora una volta, fanno uso dell’immagine-simbolo della gruccia.  

Per quanto si possa discutere di quanto il reach dei post o delle attività del movimento siano insufficienti o limitati, il lavoro delle attiviste del FAR è encomiabile sia a livello documentario che a livello divulgativo. Mette in luce, infatti, una delle tematiche fondamentali della propaganda russa, ovvero di come la natalità sia incentivata per crescere le nuove generazioni per la guerra, senza la quale la sopravvivenza dello stato russo verrebbe minata.

Nonostante non sia stato fatto ancora dalle attiviste un collegamento esplicito, è impossibile non vedere come, non potendo più di tanto risolvere la crisi demografica del paese impedendo l’aborto legale, la Russia abbia risolto la questione con i rapimenti dei bambini, e al loro seguente reinserimento nella società russa, dall’Ucraina.  

Conclusioni

Sin dalla caduta dell’Unione Sovietica, il dibattito sul diritto all’aborto è stato visto nell’ottica della sicurezza nazionale, dal momento che il declino della natalità veniva percepito come se ledesse all’esistenza stessa della nazione russa. Negli anni, si sono sviluppati gruppi e associazioni che hanno cercato di contestare le restrizioni imposte dall’alto tramite azioni di protesta, soprattutto online, che a mano a mano hanno unito alle richieste di mediazione tra donne e stato posizioni sempre più femministe e contro il governo.

Quando la Russia ha cominciato l’invasione su larga scala dell’Ucraina, la “Resistenza femminista antiguerra” ha aperto poi un dibattito più radicale, sottolineando la connessione tra la negazione del diritto all’aborto e la crescente militarizzazione della società russa. Infatti, per il regime putiniano la presenza delle nuove generazioni è fondamentale per portare avanti la propaganda di guerra e indottrinare il popolo.  

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Sofia Mischi
Sofia Mischi

Studentessa del master in East European and Eurasian studies (MIREES) presso l’università di Bologna. S’interessa della storia, politica e cultura dello spazio post-sovietico, specialmente nel Caucaso. Ha vissuto sei mesi a Tbilisi, e per un breve periodo a Mosca.