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Di vini, vitigni e confini

di Enos Costantini*

Nelle carte medievali (censi, statuti, transazioni commerciali) il vino compare assai di frequente, mentre i vitigni non sono mai menzionati. Dobbiamo attendere il 1699, ad esempio, per la prima attestazione di quel vitigno così particolare che è il Picolit. In effetti gli affitti si pagavano in vino, i dazi si imponevano sul vino, i regolamenti comunali riguardavano le misure per il vino e vi era un florido commercio di vino per mare e per terra.

Poeti e scrittori innalzavano canti e intessevano lodi al vino, mai ai vitigni che lo originavano. Chi sapeva scrivere, quindi, non era interessato all’ampelografia e i coltivatori erano analfabeti ma, anche se fossero stati alfabetizzati, non avrebbero avuto bisogno dell’inchiostro per comunicare le loro conoscenze nel ristretto ambito in cui vivevano. Una delle poche eccezioni a questa regola sembra riguardare proprio la nostra Ribolla perché in un documento del 1328 possiamo leggere: Nullus ante tempum vendemiarum accipiat et apportet ad vendendum uvas Rabiole de Collibus…. Si tratta di una delle tante regolamentazioni che riguardavano le uve con lo scopo di prevenire furti, ma a noi interessa la dicitura uvas Rabiole perché in questo caso non si tratta del diffusissimo vino Ribolla, ma della materia prima che lo avrebbe formato. Non è sicuro che si tratti del nome di uno specifico vitigno, anzi è più probabile che con uvas Rabiole si intendessero semplicemente le uve, di più varietà, destinate a formare quel vino; si tratterebbe, quindi, di un nome collettivo. In fin dei conti nomi come Ribuele zale, Ribuele verde e Ribuelat sono giunti fino ai giorni nostri, senza contare le sinonimie con Garganie e altre. 

Troviamo questa dicitura al plurale anche in altri documenti, ma qui ci piace citare un passo della Descrizione della Patria del Friuli che Girolamo da Porcia stilò nel 1567: “… ha li colli, e specialmente quelli che son chiamati i Coi, fertilissimi di frutti delicati, massime Uve Ribolle, dalle quali ha il nome di Vino Ribolla, fichi, ed altri”.

Da quelle uvas Rabiole documentate nel 1328 ad oggi, di acqua ne è passata nell’Isonzo e di vento, anche di guerra, ne è spirato sul monte Corada. Gli abitanti del Collio hanno zappato, potato, raccolto e penato come tutti i contadini del mondo. Hanno visto passare decine di vitigni, alcuni documentati, altri probabilmente consegnati per sempre all’oblio del tempo senza neppure una effimera lapide cartacea. Quando i cosiddetti Cogliani erano cittadini austriaci hanno avuto almeno due fortune: 

– erano regione privilegiata di un grande impero che chiedeva vino e frutta; 

– hanno potuto contare, almeno nell’ultimo periodo dell’amministrazione austriaca, sul glorioso imperial regio Istituto chimico-agrario sperimentale di Gorizia, guidato da quel Giovanni Bolle che è stato “il più importante scienziato che l’impero asburgico ha espresso nel campo dell’agricoltura” (così Del Zan, “Giovanni Bolle. Un grande scienziato al servizio dell’agricoltura goriziana”, in Tiere furlane, n. 5, 2010, p. 88).

Dopo la bachicoltura quell’istituto rivolse il suo interesse, accanto alla fondamentale frutticoltura, soprattutto alla viticoltura e all’enologia. Ciò non fu senza conseguenze sulla scelta dei vitigni, anche perché, qui come altrove, le crittogame americane e la fillossera, col vivaismo che ne derivò, imposero una scrematura delle vecchie varietà e delle scelte precise.

Il primo conflitto mondiale azzerò tutto anche fisicamente e il periodo successivo si svolse all’insegna dello smarrimento di una regione che diventa marginale nello stato che è subentrato. Fu la viticoltura a tenere duro, pur tra mille difficoltà economiche, ma la vocazione del territorio ne fece una scelta obbligata.

La “scuola” di Conegliano, anche qui presente, dapprima con Giovanni Dalmasso poi con Italo Cosmo, fece opera di pulizia etnica nei confronti di tanti vitigni che, comunque, sarebbero stati consegnati alla storia.

Il secondo conflitto mondiale ebbe come nefasta conseguenza la formazione di un confine che non era mai esistito, innaturale e surreale. L’evoluzione della piattaforma ampelografica di qua e di là di quella kafkiana divisione non fu molto diversa, se si eccettua che la Ribolla tenne ben salde le sue posizioni in epoca titina, mentre decadde nella democrazia occidentale, tanto da essere snobbata anche dalla DOC Collio nella sua prima impostazione ideologica tutta improntata a quella scelta qualitativa che i tempi sembravano pretendere. Ma erano i tempi di un nuovo Rinascimento per i vini del Collio italiano, la prima seria riscossa dopo l’annichilimento provocato dalla prima guerra mondiale.

La presenza di due grosse entità cooperative da entrambe le parti della barriera politica può avere influenzato la scelta dei vitigni e la rispettiva incidenza nella produzione vinicola complessiva. Sicuramente la spumantizzazione si è rivelata per la Ribolla una intuizione vincente e sta assicurando il futuro, anche fuori patria, a un vitigno che ha solide radici storiche nell’intero Collio / Brda, un piccolo mondo con paesaggi da fiaba modellati dalle viti che non conoscono la barbarie delle frontiere umane.

Gli altri vitigni requiescant in pace: una delle motivazioni di questo scritto era quella di ricordarli con gratitudine, per il bene che hanno fatto ai Cogliani e a tutti quelli che hanno potuto goderne da boccali, tazze e bicchieri.

Si chiude con una nota di rammarico ormai banale in questo genere di scritti: se la conservazione di un patrimonio genetico chiamato Ribolla gialla ha consentito nuove soddisfazioni economiche e gratificazioni per il lavoro del viticoltore, con ogni probabilità anche altri vitigni, qualora conservati, avrebbero potuto trovare un campo d’azione diverso rispetto al passato, forse tanto inaspettato quanto proficuo.

Per altre curiosità enogastronomiche, visitate la nostra sezione Palato in ESTasi

Vini di oggi, vini di ieri. Ovvero di come la Ribolla è viva e lotta insieme a noi

I vitigni attualmente coltivati sul Collio italiano sono: Chardonnay, Malvasia istriana, Müller Thurgau, Picolit, Pinot bianco, Pinot grigio, Ribolla gialla, Riesling renano, Riesling italico, Sauvignon, Tocai friulano, Traminer, Cabernet franc (Carmenère), Cabernet sauvignon, Merlot, Pinot nero. Sono, sostanzialmente, quelli consigliati dalla “scuola” di Conegliano, ma presenti in loco già dalla seconda metà dell’Ottocento e, quindi, sperimentati e acclimatati.

Soltanto la Ribolla è documentata sul Collio prima della crisi oidica che ebbe inizio nel 1850 e che sconvolse il patrimonio ampelografico aprendo la strada alla massiccia introduzione di vitigni provenienti da altre regioni europee. Fra questi, come si può desumere dall’elenco, si imposero quelli di origine francese, tanto della Borgogna che del Bordolese (anche il Tocai friulano, alias Sauvignonasse, viene dal Sud-Ovest della Francia). 

La Ribolla, quindi, ha saputo sfidare i secoli. Ciò è stato possibile grazie all’adattamento all’ambiente, alla adattabilità alle forme di allevamento moderne e alle attuali tecniche di potatura, ma soprattutto alla plasticità di cui ha dato prova nella produzione di vini diversissimi, dai filtrati dolci, al bianco secco fermo, allo spumante ora di attualità. Non ha avuto vita facile: tecnici, esperti, soloni della legislazione vitivinicola non le hanno risparmiato critiche ma, ciò vale per tutti i tempi, il contadin sa quello che fa ed elimina una varietà, oppure ne adotta un’altra, soltanto se ha dei validi motivi. 

E di là del confine? Un tuffo tra le varietà ottocentesche 

Nel 1844 usciva Vinoreja sa slovenze, il testo di Matija Vertovz che si può ritenere la base storica della viticoltura nell’attuale Slovenia occidentale. Il Vertovz fece una buona disamina dei vitigni all’epoca coltivati e noi qui accenneremo a quelli che vengono menzionati come presenti sul Collio. 

Ecco le varietà bianche di maggior pregio:

– la Rebóla che è descritta in sei tipi; 

– la Mushkatéljka, o Mushkàt che è nota dappertutto, ma poco coltivata per paura che i vendemmiatori la mangino!; 

– la Malvashija che è descritta in sette tipi, il più apprezzato dei quali sarebbe quello con acini di media grandezza; 

– la Şhterjána che sarebbe la Gergánija, o Tershashka (= triestina) Gergánija del Vipacco; 

– la Gergánija del Collio, che è chiamata Rebola a Gorizia, è ferace quanto la Tershashka Gergánija ed è descritta in due tipi; 

– il Zhedajz (Cividin), di cui sono descritti cinque tipi, è conosciuto ovunque e più o meno coltivato a seconda della zona; 

– il Pikolit, di cui sono citati due tipi, è conosciuto da tutti i viticoltori, con esso si è iniziato a imitare il Tokaji e si rammenta che 50-60 addietro i feudatari del Collio ne avevano piantato molto; 

 – lo Selén del Collio, detto Şipa altrove, che è diverso dallo Selén del Vipacco (ne vengono descritti otto tipi).

Seguono le varietà bianche di minor pregio:

– la Gljera o Gléra è molto diffusa e tanto il Prosecco che la Ribolla sono per la maggior parte fatti con questa uva (sono descritti cinque tipi); 

– la Volóvna è detta Drénik sul Collio e ne vengono descritte 2 varianti; 

– la Dishezhka che è detta Şevshiza sul Collio (ne vengono descritte 4 varianti);

– la Dishezhka lashka di cui si ricorda un tipo con un odore fortissimo, tanto che quando in una località del Collio ne hanno fatto un uso eccessivo non sono riusciti a vendere la Ribolla (in effetti c’è una variante detta Şmerdodúshka che si potrebbe tradurre con ‘puzzolente’);                     

– la Rezhigla è ricordata solo per il Vipacco, dove sarebbe sempre meno coltivata; 

– il Rumenják, nome che sul Collio si dà alla varietà nota come Marvinj nel Vipacco, Glavazhiza a Prosecco e Jávornik altrove;

– del Meskljer non si dice dove è coltivato e sono note tre “razze” del medesimo che non sono per nulla parenti (lo citiamo anche perché si trova nell’elenco del 1763 come Mascler);

– la Pérgola è nota dovunque, ma non molto coltivata e sarebbe più adatta come uva da tavola che da vino;

– della Augushtana si dice solo che è l’unica coltivata in modo specifico come uva da tavola, ma non si fa alcun riferimento geografico.

Per nessuno dei vitigni a bacca nera o rossa viene fatto un esplicito riferimento al Collio, ma facciamo seguire quelli che non hanno precise indicazioni geografiche di coltivazione: Refoshk (varietà di origine italiana assai adatta per i terrani), Refoshkát o Shúshovna, Bersamin o Mersamin, Rashpiza, Penjel, Penjélz, Gnjet / Gnjetiza detta Kordovat in Friuli (la più coltivata, vero dono divino per le classi lavoratrici), Kifilz detto anche Kurbin e Zhernina (è di origine italiana e se ne conoscono tre tipi), Pergola zherna.

Non ci possiamo soffermare su ognuno di questi vitigni; ci limitiamo ad osservare che siamo in presenza della prima attestazione della Malvasia (e, per giunta, in sette tipi). Nel quindicinale Kmetovalec (stampato a Gorizia)del 28 ottobre 1875, n. 19, troviamo una Ermežija (= Malvasia) tra le viti commercializzate dalla Scuola regionale per la viticoltura e la frutticoltura di Slap pri Vipavi (Vipacco) che viene definita ottima sia da vino che da tavola. Nell’anno successivo si dice che questo vitigno è originario dell’Italia (Kmetovalec, n. 19, 1876).

*Enos Costantini è stato insegnante presso l’Istituto tecnico agrario di Cividale del Friuli. Si dedica allo studio storico-linguistico delle piante coltivate in regione. Per Forum editrice è stato autore, co-autore e curatore di diversi volumi, tra cui Ribolla story. Viti e vitigni che hanno sfidato i secoli (2017), Storia della vite e del vino in Friuli e a Trieste (2017), Tocai e Friulano (2013), La vite nella storia e nella cultura del Friuli (2007).

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Redazione
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