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Conversazioni di cultura bielorussa: un’intervista doppia

Sentir parlare di cultura bielorussa in Italia, e soprattutto di lingua e letteratura, è una vera e propria eccezione. Se già fatichiamo a conoscere in maniera approfondita culture slave come quella polacca o ceca, o adesso quella ucraina, quando si parla di Belarus’ c’è probabilmente il vuoto totale. Non è, però, mai troppo tardi per rifarsi. Ed è proprio per questo che abbiamo chiesto aiuto a due esperti in materia: Giulia De Florio e Alessandro Achilli.

Giulia De Florio, presidente di Memorial Italia, è docente di lingua e traduzione russa presso l’Università di Parma. Recentemente si è occupata di poesia bielorussa contemporanea, in particolare di Dmitrij Strocev, curando diversi volumi in italiano.

Ucrainista rinomato, Alessandro Achilli è docente universitario e ricercatore di lingue e letterature slave. Specializzato in slavistica e germanistica, è traduttore dall’ucraino di prosa, poesia e reportage per svariate case editrici italiane.

Occupandosi entrambi di cultura bielorussa, nel merito poesia, Giulia e Alessandro hanno curato insieme il volume Il mondo è finito e noi invece no. Antologia di poesia bielorussa del XXI secolo, per WriteUp Books.

Partiamo da una domanda semplice, quasi banale, ma a cui è spesso molto difficile rispondere: come, quando e perché vi siete appassionati di lingua, letteratura e cultura bielorussa?

Alessandro: Nel mio caso l’interesse è stato “facilitato” dal mio lavoro di ucrainista. Occupandomi della cosiddetta “altra cultura slavo-orientale minore”, non è stato difficile aprirmi a quella bielorussa. Mi sono reso conto di tutta la mia ignoranza in materia e di tutto il lavoro da fare per scoprirla e diffonderla.

Ma chiaramente senza l’attenzione mediatica del 2020, un periodo che inoltre ho trovato molto produttivo per letture e approfondimenti, il mio avvicinamento alla letteratura bielorussa sarebbe stato decisamente più lento e più tardivo. Avevo già letto alcune cose, ma i titoli e i nomi che conoscevo allora si potevano contare sulle dita di una mano.

Quindi ad aprirmi le porte della letteratura bielorussa è stata la poesia dell’estate e dell’autunno del 2020, che leggevo quasi in diretta in bielorusso e in altre lingue. Come nel caso della lirica ucraina del 2014, e poi di quella a partire dal 2022, anche la scrittura di poete e poeti bielorussi del 2020 è stata testimone in tempo reale delle lotte, delle speranze e del dolore di quell’estate.  

Giulia: Per me è stato semplice e, come nel 90% delle scelte importanti della mia vita, a essere determinante è stato un incontro personale. Mi trovavo a Jasnaja Poljana, nella tenuta di Lev Tolstoj, a un seminario di traduttori/trici, e venne invitato un poeta bielorusso russofono: Dmitrij – Dima – Strocev. Cenammo una sera a casa di una docente di letteratura russa di un’università di Mosca, Dima era stato invitato e un mio carissimo amico, allora studente come me, aveva tradotto alcune sue poesie. Vorrei dire che fui folgorata da quel primo incontro, ma sarebbe clamorosamente falso. Anzi, me ne andai via prima perché avevo un appuntamento galante (!).

Ma il destino, per fortuna, è cocciuto e a volte le persone più importanti (come le poesie) arrivano pian piano, ti entrano sotto pelle lentamente e, a differenza dell’appuntamento galante, non se ne vanno più. Qualche giorno dopo incontrai per caso Dima in una famosa libreria di Mosca (non è così strano, ogni persona leggente prima o poi passava da quella libreria), mi invitò a prendere un caffè.

Il mio russo all’epoca non era buono, e avevo frequentato decisamente più poeti morti che vivi quindi non sapevo bene cosa dirgli (perché, pensavo, a un poeta non puoi dire: “Oggi fa freddino, nè?”). Dopo un po’ di imbarazzo iniziale, finalmente riuscimmo a trovare le parole per chiacchierare. Terminato il caffè mi sorrise e disse: “Finalmente ci siamo accordati”, usando il verbo che si impiega per gli strumenti musicali. E pensai: ah, ecco com’è fatto un poeta. Da lì restammo in contatto e crebbe la nostra conoscenza reciproca che divenne amicizia.

Iniziai a leggere le sue poesie, a entrare nel suo mondo poetico. Ma di Belarus’ parlavamo poco e quando riuscivamo a vederci capitava sempre nella Federazione Russa. L’incontro con la sua terra avvenne nel 2019: Dima era già un poeta molto affermato ovunque e molto inviso in patria (non poteva più pubblicare in Belarus’, quindi metteva le sue poesie online, su Facebook).

Quando vinse il Premio Ciampi di Valigie rosse che consisteva nella possibilità di pubblicare una raccolta singola o una selezione di poesie, decidemmo di creare una raccolta ad hoc per il pubblico italiano. Mi invitò a Minsk, a casa sua, e lavorammo cinque giorni al libro. Ma tra una discussione e l’altra mi fece incontrare la città e i dintorni, dormimmo in un cottage in mezzo al verde, trascorsi momenti meravigliosi con i suoi amici e la sua famiglia, andammo a messa nella sua parrocchia e il sacerdote mi regalò una piccola icona.

cultura bielorussa strocev

Poco prima che l’antologia andasse in stampa Dima venne arrestato e incarcerato. Organizzammo una serata di letture poetiche e in accordo con l’editore aggiungemmo una sezione di “poesie di protesta” che aveva scritto poco prima di finire in prigione. Grazie a Dima, che svolge anche un’importantissima attività di editore, ho potuto conoscere altri autori e autrici, lo intervistai per un progetto legato al dissenso in Belarus’ e tramite lui entrai in contatto con studiosi che si occupavano di storia della letteratura bielorussa e, soprattutto, con poeti bielorussi russofoni come Veniamin Blažennyj o Aleksej Ždanov.

La lingua, invece, è arrivata soprattutto con l’antologia che ho curato insieme ad Alessandro Achilli, Maya Halavanava, Massimo Maurizio e Dima stesso [ne abbiamo parlato qui, ndr]. Maya è una cara amica ed è bielorussa, Alessandro impara le lingue slave come se fosse la cosa più facile al mondo (perché è un genietto, anche se non vuole che si sappia) e, discutendo le loro traduzioni dal bielorusso, ascoltando le poesie recitate dalle autrici e dagli autori, mi sono appassionata a quei suoni, a quella pronuncia. Troppo tardi, mi dico ogni tanto. Ma sono grata che sia successo.

È un dato di fatto, ormai, che esiste un legame tra arte e politica. E uno degli esempi più lampanti e attuali, nel caso della Belarus’, è quello di Arthur Vakarov, designer che racconta il suo paese, tra dittatura e resistenza, in 30 manifesti. Secondo voi, accanto all’arte, che ruolo hanno acquisito la letteratura e la lingua nella lotta di bielorusse e bielorussi contro il regime di Aljaksandr Lukašenka?

Giulia: La questione linguistica è sempre stata un fattore rilevante per capire la storia bielorussa. Consiglio di leggere i saggi di Manuel Ghilarducci per chi vuole approfondire il tema.

Identità e lingua sono strettamente connesse, lo sappiamo, e questo è ancor più vero nei paesi dell’ex Urss, dove l’autonomia nazionale e il plurilinguismo dovevano sempre fare i conti con un centro dominante e con il livellamento della cultura sovietica.

È naturale che anche oggi, nella lotta contro il regime di Lukašenka, la lingua abbia assunto un peso rilevante: il bielorusso ha sempre meno spazi di espressione e in molti artisti e artiste è diventata la lingua della resistenza. Conosco persone bielorusse russofone che dal 2020 (e alcune dal 2022) si sono messe a parlare soltanto bielorusso. Era una lingua che avevano dentro, ed è come se fosse scattato qualcosa e si fosse fatta strada nel petto e avesse chiesto di uscire. Ma, come sempre, non esistono equivalenze o strade uguali per tutti/e. Dima, per esempio, continua a scrivere in russo, altri autori e autrici hanno aggiunto l’ucraino tra le lingue della scrittura.

Ognuno fa i conti con il proprio passato e presente.

La letteratura, l’arte in generale sono frutto di persone che oltre ad avere mani per dipingere, gambe per danzare, e occhi per fotografare hanno sempre testa e cuore, soprattutto in tempi di tirannide. Come usarli e dove poggiarli è una scelta individuale.

Alessandro: Un legame che è sempre importante sottolineare, soprattutto quando si sentono in continuazione indifendibili richiami a una presunta, miope, pericolosa apoliticità del fare cultura.

La letteratura e la lingua bielorusse sono un elemento cardine della resistenza alla volontà di livellamento culturale del regime di Lukašenka. Allo stesso tempo non si può ignorare il fatto che una parte significativa della cultura e della letteratura bielorussa continui a essere prodotta in lingua russa. Al di là delle ragioni storiche dietro a questo dato di fatto, cioè la radicale russificazione a cui la Belarus’ è stata quasi costantemente sottoposta negli ultimi decenni e non solo, è innegabile che il russo continui a giocare un ruolo importante nel panorama della cultura bielorussa libera.

Ma questo naturalmente non toglie che il bielorusso abbia, direi anche debba avere, un ruolo preponderante nella cultura bielorussa.

È anche una questione di responsabilità nei confronti di una lingua che nel paese è sempre più ridotta a orpello, privata della possibilità di fungere da strumento di comunicazione, di cui quindi il potere autoritario riconosce il potenziale rivoluzionario.

E chi si occupa di cultura bielorussa da fuori non può che riconoscere l’importanza della lingua bielorussa e fare di tutto per sostenerla, cosa che non si può dire, purtroppo, del nostro mercato editoriale, che in quei pochissimi casi in cui sceglie di pubblicare opere di autrici e autori bielorussi lo fa esclusivamente guardando a chi scrive in russo. Vuoi per automatismi, vuoi per ragioni pratiche, ma la realtà dei fatti è questa.

Come descrivereste, sempre dal punto di vista culturale, la situazione oggi, a cinque anni dalle proteste del 2020? Ci sono nuove forme di censura che colpiscono, in particolare, le varie forme di letteratura all’interno del paese?

Alessandro: Negli ultimi cinque anni la scrittura è stata molto importante sia per far sentire la voce della Belarus’ libera all’estero – e in questo hanno naturalmente giocato un ruolo importante le traduzioni – sia nel creare piattaforme per le bielorusse e i bielorussi stessi che hanno dovuto lasciare il paese nel 2020 o poco dopo.

Oggi, infatti, la letteratura bielorussa cresce principalmente al di fuori del paese. Anche se alcune delle sue voci libere abitano ancora in Belarus’, e di questo non bisogna dimenticarsi, le infrastrutture editoriali e culturali che ne permettono lo sviluppo e la disseminazione sono quasi – e, ripeto, questo quasi non va dimenticato – interamente all’estero, soprattutto tra Polonia, Lituania, Germania e Regno Unito.

La censura nel paese è terribilmente forte, ma internet fa sì che in qualche modo il dialogo tra chi è in Belarus’ e chi è in emigrazione o in esilio possa andare avanti.

dittatura e resistenza
I simboli storici dello Stato non solo sono vietati, ma il loro uso comporta una pena detentiva fino a 4 anni. Di fatto in Belarus’ non è sicuro parlare in bielorusso. Qualsiasi iniziativa di carattere civile o storico viene brutalmente soppressa (Arthur Vakarov, manifesto n.1)

Si può parlare di deterritorializzazione della lingua e della cultura bielorussa, con case editrici, festival e iniziative culturali che lavorano per mantenere in vita la lingua e far crescere e circolare la cultura.

Giulia: Non ho il polso del paese dalla fine delle proteste, ma, da quanto leggo e sento, gli spazi della letteratura e dell’arte in generale sono esiziali e clandestini.

L’arte non muore nemmeno sotto la peggiore dittatura, questo ce lo insegna la storia del mondo, ma all’interno della Belarus’ credo che oggi sia molto rischioso parlare in bielorusso, o esprimere opinioni – in qualsiasi forma, artistica o meno – che deviano dall’ideologia ufficiale imposta dal governo di Lukašenka.

Immagino che ci siano, come sempre accade nei regimi autoritari, una serie di zone grigie, e piccoli anfratti di libertà. Ma sono anche sicura che ci sia molta paura, che molte persone siano costrette a fare scelte di campo contrarie al proprio sentire, e per le ragioni più disparate, che debbano scendere a compromessi o iniziare a pensare in maniera scissa per distinguere la realtà dalla sua narrazione ufficiale.

La cultura, come ogni fenomeno sociale, subisce pressioni molto forti e può diventare strumento di resistenza o arma di propaganda.

Ci sono voci poetiche o letterarie emergenti che, secondo voi, incarnano lo spirito di questo nuovo periodo storico?

Alessandro: Le voci sono davvero molte. La letteratura bielorussa di oggi è irriducibile a un solo stile, orientamento, o a una sola tematica. Non “parla” soltanto della situazione politica della Belarus’ e delle repressioni. È però inevitabile che questi temi si facciano sentire con una certa insistenza.

Vista la mia passione per la poesia, non posso che pensare innanzitutto alle tantissime raccolte poetiche pubblicate dalle ormai non poche case editrici dell’emigrazione. Il nome che mi viene spontaneo citare per primo, anche perché è uno di quelli che mi ha avvicinato alla poesia bielorussa anche prima del 2020 e con cui ho avuto la fortuna di interagire personalmente, è quello di Julia Cimafiejeva, che oggi vive in Germania, e che si può leggere in lingue come l’inglese e il tedesco.

La scrittura di Julia è sintetica, tranciante, ricchissima di vissuti e di pungente ironia. La sua ultima raccolta è uscita pochi mesi fa. Se in quelle precedenti a prevalere erano poesie “tradizionalmente” incentrate sul presente e il passato dell’io e della sua comunità, nel suo ultimo libro la scrittura poetica si fa esplorazione più sistematica del vissuto della propria famiglia, sparsa per il mondo dalle violenze del Novecento e, oggi, anche da quelle della contemporaneità. Julia ha scritto anche, in inglese, un diario delle settimane di lotta del 2020.

Giulia: Mi piacciono molto Hanna Komar, Julia Cimafiejeva e Lina Kazakova: sono voci molto diverse, ma tutte attentissime al dettaglio, al documento, alla descrizione della realtà contemporanea in tutte le sue sfumature. Mi riportano alla coralità della poesia che è un tratto distintivo della tradizione bielorussa. Precisione e polifonia, ovvero costruzione di appartenenza: questo mi sembra lo spirito di questo periodo di lutto e tragedia, dove, tuttavia, ci sono piccole luci che splendono forte.

Anche la traduzione può venir considerata un atto politico. Secondo voi, quanto è importante tradurre la letteratura bielorussa per far conoscere questo paese in Italia? E quali sono le maggior sfide e gli ostacoli che un traduttore dal bielorusso incontra?

Giulia: Tradurre, soprattutto poesia, è o dovrebbe essere, prima di tutto, un atto di amore. Come lo è la politica, anche se ci sembra quasi sempre che sia l’attività meno nobile o amabile al mondo.

Ma le proteste in Belarus’, così come la resistenza ucraina, ci dimostrano che per i diritti umani e per il bene comune c’è ancora chi è disposto a rischiare o perdere la vita. Questo da noi arriva in qualche modo “attutito” perché la conoscenza italiana di certe culture è molto lacunosa.

Viviana Nosilia, professoressa associata di letteratura russa dell’Università di Padova, scrisse un paio di anni fa un articolo molto bello in cui spiegava bene perché è difficile in Italia empatizzare con la causa ucraina. Il lutto si avverte soltanto quando si perde qualcosa di proprio, di vicino, di familiare. Ciò di cui si ha una conoscenza superficiale, per forza di cose, ci appassiona di meno, nella buona e nella cattiva sorte. Se questo vale per l’Ucraina, figuriamoci per la Belarus’, di cui si sa ancora meno.

Tradurre letteratura, poesia, saggistica bielorussa è quindi una scommessa per il futuro: più conosciamo l’Altro, e in uno dei modi migliori, cioè attraverso l’arte, più abbiamo possibilità di imparare a capirlo e rispettarlo. Attenzione, non per forza amarlo. Ma il rispetto e la presa di coscienza della storia di un Paese, diversa dalla nostra, ma ugualmente importante, è la base irrinunciabile per una convivenza pacifica.

Per quanto riguarda le difficoltà, oltre a quelle comuni a tutte le linguoculture, per la bielorussa, come per i paesi poco noti nella cultura di arrivo la sfida è traghettare il più possibile di quel mondo, non potendo appoggiarsi su conoscenze pregresse o scontate nel lettore/lettrice.

Un esempio: se in un romanzo o in una poesia bielorussa compare Kurapaty a un pubblico italiano non dice nulla, mentre è un luogo tristemente noto in Belarus’. È una foresta fuori Minsk in cui vennero giustiziate migliaia di persone (e le cifre reali sono ancora un mistero) tra il 1937 e il 1941, nel periodo del Grande terrore e della repressione sovietica in Bielorussia. Come faccio arrivare quell’immagine a un pubblico italiano a digiuno di storia degli eccidi? E ancora: scrivo “Bielorussia”, invece di Belarus’, perché all’epoca il paese era parte dell’Urss e utilizzava la grafia russa per i toponimi.

Anche le differenze di alfabeto, traslitterazione, uso del russo e del bielorusso a seconda del momento storico sono dettagli fondamentali che hanno rivestito un ruolo importante nel processo di nation-building, ma che sono difficili da riportare in un altro sistema di coordinate culturali.

Detto questo, sono convinta da sempre che tutto sia traducibile o quantomeno comunicabile. A volte con perdite enormi, con entropia dilagante. Eppure, lo sappiamo, la traduzione è il sistema circolatorio delle letterature del mondo; e quella linfa, per fortuna, continua a girare.

Alessandro: Le sfide sono chiaramente molte. La principale è quella linguistica: anche quando hai acquisito una competenza della lingua a livello passivo che ti consenta di capire i testi senza grossissime difficoltà, ti scontri col fatto che anche per te il bielorusso funziona praticamente solo come una lingua scritta. Puoi cercarti qualche occasione per provare a parlarlo, ma chiaramente non hai un paese dove andare a fare pratica. E se anche si potesse andare in Belarus’ sarebbe comunque difficile praticare davvero la lingua.

L’altro problema è la quantità di conoscenze pregresse mancanti che ci sono da recuperare, tutte le cose che bisogna ancora leggere. Poi chiaramente ci sono i problemi materiali, dalla mancanza di interesse del mondo editoriale per la letteratura bielorussa, soprattutto per quella in lingua bielorussa, alla mancanza di un pubblico, con il classico serpente che si morde la coda. L’unica speranza è che l’aumento della visibilità della cultura bielorussa in altri contesti, come per esempio in quello tedescofono, possa avere ripercussioni positive anche nel nostro contesto.

Infine, cosa consigliate di leggere per capire la Belarus’ di oggi?

Alessandro: In italiano penso al romanzo Ex figlio di Sasha Filipenko, che ormai ha più di dieci anni, ma rimane una lettura importante per capire l’oggi, anche grazie all’ottima traduzione di Claudia Zonghetti.

Spaziando anche all’inglese, e per chi non teme la poesia, ripropongo Julia Cimafiejeva, nella traduzione di Valzhyna Mort, altra grande poetessa che scrive in bielorusso e in inglese, e Hanif Abdurraqib.

Giulia: Per capire la Belarus’ di oggi bisogna conoscere la Belarus’ di ieri, ma purtroppo la letteratura bielorussa novecentesca è poco tradotta in italiano. Consiglio sempre Tempo di seconda mano del premio Nobel Svetlana Aleksievič per avere un’idea dell’eredità sovietica e di cosa ha voluto dire per molti e molte il 1991 e gli anni a venire.

Per fare autopromozione, cosa che mi riesce sempre poco e male, per Scholè ho curato un piccolo volume, Bielorussa viva tra dittatura e resistenza, tratto dalla mostra di cui parlavi prima di Arthur Vakarau/Vakarov. Al suo interno c’è un bel saggio di Francesco Brusa, giornalista che si occupa di est Europa con molta lucidità e intelligenza. È un testo che propone, secondo me, ottime osservazioni sul passato e il presente del paese.

Per approfondire, qui la recensione di Bielorussia viva tra dittatura e resistenza

E poi, visto che siamo alla fine e senza modestia alcuna, aggiungo anche: leggete la nostra antologia di poesia bielorussa contemporanea!

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Claudia Bettiol
Claudia Bettiol

Traduttrice e redattrice, la sua passione per l’est è nata ad Astrachan’, alle foci del Volga, grazie all’anno di scambio con Intercultura. Gli studi di slavistica all’Università di Udine e di Tartu l’hanno poi spinta ad approfondire le realtà oltrecortina, in particolare quella russa e quella ucraina. Vive a Kyiv dal 2017, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso, MicroMega e Valigia Blu. Nel 2022 ha tradotto dall’ucraino il reportage “Mosaico Ucraina” di Olesja Jaremčuk, edito da Bottega Errante.