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Ostajnica, “vergine giurata”, è il titolo del romanzo di René Karabash. Autrice, sceneggiatrice e attrice di origini bulgare, fa capolino nel catalogo di Bottega Errante Edizioni grazie alla traduzione di Giorgia Spadoni, già traduttrice di Circo Bulgaria di Dejan Enev per la stessa casa editrice. Il titolo dell’edizione italiana, Colei che resta, fa eco quello scelto alla traduzione inglese e rimarca il significato “morfologico” di ostajnica. Differente è invece il contesto francese, dove si è deciso di utilizzare il significato del termine legato alla tradizione albanese Vierge jurée, “vergine giurata”. Sembrerebbe una considerazione scontata, ma è proprio questo uno di quei termini “ambigui” su cui si regge tutto il romanzo.
La lingua per Karabash non è solo un mezzo narrativo, ma una possibilità di sperimentare su più livelli. Questo lo si può evincere sin da un primo sguardo alla struttura del libro. Difatti, il lettore che si avvicinerà a Colei che resta con l’aspettativa di incontrare una prosa tradizionale rimarrà deluso. Karabash rinuncia alla linearità, gioca con l’alternanza di prosa e poesia, tanto da rendere impossibile definire l’opera un romanzo.
La narrazione, in prima persona, preserva così un ritmo naturale del pensiero, tutt’altro che equilibrato ma, piuttosto, che incalza scostante. A questo si aggiunge anche la scelta di non rispettare le regole ortografiche, come l’uso della maiuscola, e di mischiare i generi letterari: è un romanzo di formazione? Un’epopea in chiave moderna? Un romanzo famigliare? A questa questione risponde prontamente l’autrice che, come ricordato anche da Elvira Mujčić in apertura alla sua prefazione, afferma: “Non è un mito, né una favola. È la storia dell’umanità”.
Il/la protagonista di Colei che resta
Sin dal titolo Ostajnica, Colei che resta, si individua un’ambiguità nel fatto che, come si scoprirà nell’evolversi della vicenda, Bekià/Matija riveste sia il ruolo di vergine giurata che di colei che resta – che resta nel villaggio e in tradizioni che oggi si dissolvono. In cosa consista la scelta esistenziale di divenire una vergine giurata viene spiegato ampiamente sin nelle prime pagine. Le note a piè pagina arrivano in soccorso di chi legge e permettono di orientarsi nel complesso sistema di elementi altrimenti incomprensibili, specialmente del Kanun che, come afferma Ismail Kadare – uno dei più importanti autori albanesi, scomparso lo scorso luglio – in Aprile spezzato:
si trovava ovunque, strisciava per terra, ai margini dei campi, entrava nelle fondamenta delle case, nelle tombe, nelle chiese, nelle strade, nei mercati, nelle feste di matrimonio.
La compresenza di più significati o la biforcazione delle singolarità è presente anche nel personaggio principale, che si è chiamato Bekià/Matija: “attraverso un rituale che la trasforma in una vergine giurata, Bekià cessa di esistere per diventare Matja”. Questa scissione non è unicamente legata al rituale ma è radicata nella vicenda famigliare. Una chiave per comprendere questo elemento in Bekià è rappresentata dal termine sin che in bulgaro ha la particolarità di significare sia “blu” che “figlio”:
già nel ventre di mia madre sentivo diverse cose come mio padre che diceva iskam sin, voglio un figlio
Questa corrispondenza di significati, che prende il nome di omofonia, è uno degli elementi su cui si basa l’intera vicenda. L’idea di non essere stata in grado, nascendo donna, di soddisfare il desiderio del padre di avere un figlio maschio attanaglia Bekià sin da bambina: in risposta di questa volontà di essere il sin desiderato, porta spesso abiti blu (sin significa appunto “blu”) come a sopperire simbolicamente a una mancanza di cui non ha colpe.
Al rapporto complesso col padre si affianca la scoperta, da parte di Bekià, della propria sessualità e l’impossibilità di conciliare il futuro che desidera con quello che, facendo parte di una specifica comunità rurale, dovrebbe avere in sorte. Il divenire una vergine giurata, difatti, si rivela una decisione obbligata dopo aver infranto le leggi del Kanun secondo le quali una donna si dovrebbe presentare “pura” al matrimonio. Come mostrato da Karabash, è il Kanun a controllare le vite e i destini delle comunità albanesi che vi aderiscono, un giuramento a cui anche Murrash, padre di Bekià, resta fedele persino trovatosi a dover affrontare la morte:
mio padre respira pesantemente, il Kanun alla fine l’ha raggiunto, gli gonfia il petto con la sua legge suprema, la legge dell’onore, papà solleva il braccio sinistro, mia madre piange, guardo il braccio di mio padre, se avesse potuto sollevare il suo intero corpo per quell’onore, se potesse morire di una qualche malattia o nel proprio sonno, se potesse morire con due dita d’onore sulla propria fronte.
Karabash sceglie le parole del suo libro rispettandone e investigandone il significato intrinseco. Una cura che si rivela non solo nel termine sin ma anche nella scelta dei nomi dei personaggi che sono nomi parlanti. Ad esempio, Bekià significa “salvata, tenuta in vita”.
L’Albania (e la Bulgaria) di René Karabash
Come dichiarato in un’intervista, Karabash non ha mai osservato in prima persona il fenomeno delle vergini giurate. Il suo interesse per quest’ultimo si è sviluppato, piuttosto, dall’incontro casuale con alcune fotografie di Pepa Hristova. Alle origini del libro vi è una ricerca che, sebbene non avvenga sul campo, vaglia in profondità le leggi del Kanun. Per quanto sia sconosciuto, questo microuniverso, come dichiarato nella stessa intervista, non è così tanto distante dal villaggio del nord della Bulgaria da cui proviene Karabash: l’Albania rurale diviene il contesto adatto per sviluppare dei temi che hanno a che fare con la sua geografia personale.
L’autrice René Karabash (Yana Lozeva/Sofia Literary Agency)
Sebbene Karabash sia un’autrice di origini bulgare, la Bulgaria non è tanto l’hic et nunc, il qui e ora, quanto l’altrove. Mentre le catene montuose albanesi, luogo di tradizioni e antiche usanze, rappresentano il contesto principale in cui si svolge l’azione, Sofia compare solo a pagina trentacinque in una lettera del fratello della protagonista, Sali. Simbolo di questo altrove è anche Dana, la giovane ragazza bulgara di cui si innamora Bekià.
La Bulgaria rappresenta un luogo di passaggio, dove la protagonista giunge solo nelle fasi finali del libro. Tuttavia, la parte della “vicenda bulgara” non si svolge nelle vie della capitale, ma in luoghi chiusi, nel dolore privato: “avevo così tante cose da dirle, ma preferivo ascoltarla, ascoltare la sua voce e morire, il resto del tempo avevo la sensazione di impazzire in quella stanza”. Il dolore è l’altro grande protagonista dell’opera, manifestandosi in ogni sua forma e ricordando che nella vita, per natura, non si sfugge al confronto con menzogne e sofferenze.
Nell’universo di Colei che resta la vicenda di avviluppa, intensifica il ritmo sino a diventare frenetica, trovando poi respiro solo nelle battute finali dove i singoli fotogrammi trovano un equilibrio. Le scene lunghe e i primi piani sui personaggi conferiscono al libro un carattere profondamente cinematografico e, non a caso, è in produzione un film basato proprio sulla vicenda di Bekià. Karabash ricostruisce abilmente un microcosmo famigliare alla ricerca di una riconciliazione, in cui il trauma è profondamente intrecciato al desiderio di libertà.
Colei che resta di René Karabash, traduzione di Giorgia Spadoni, prefazione di Elvira Mujčić Bottega Errante Edizioni, 2025
Dottoressa di ricerca in Studi germanici e slavi, è ricercatrice presso l'Université libre de Bruxelles. Traduce e gestisce il progetto Andergraund Rivista.