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Černobílé filmy: un breve excursus nel cinema ceco in assenza di colore

di Martina Mecco *

Il panorama cinematografico ceco contemporaneo non gode, ancora, di un’ampia diffusione tra il pubblico italiano, fatta eccezione per quei film che arrivano sugli schermi dei festival. Tuttavia, esso si distingue sia per un florido sviluppo che per una solida e importante tradizione, in cui non mancano di certo contatti e intrecci con altri grandi scenari del cinema europeo. Proprio questa complessità rende in un certo senso difficile trovare un filo conduttore che permetta di tracciare, a grandi linee, una breve storia della cinematografia ceca.

Eppure, è possibile, compiendo forse un’azione un po’ azzardata, porre un discrimine: quello dell’assenza del colore. Se dopo la nascita del cinema a colori la scelta del bianco e nero ha assunto un valore espressivo ed estetico diverso, nel cinema ceco contemporaneo sono presenti due pellicole che meritano particolare attenzione.

L’assenza di colore nel cinema ceco contemporaneo

Nabarvené ptáče (L’uccello dipinto) è un film realizzato dal regista ceco Václav Marhoul (1960), uscito nel 2019, anno in cui è stato presentato anche al Festival del cinema di Venezia. La pellicola è un adattamento dell’omonimo libro dello scrittore polacco naturalizzato statunitense Jerzy Kosiński, pubblicato invece nel 1965.

Particolarmente affascinante è la scelta delle inquadrature, che sono per la maggior parte immagini ravvicinate dei volti che fissano imperturbabili la cinepresa. Il film vede la storia di un bambino dagli “occhi di zingaro”, interpretato da Petr Kotlár che, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, viene mandato dai genitori a rifugiarsi in campagna. Il mondo in cui precipita è completamente diverso da quello che è costretto a lasciare: una dimensione ancestrale situata in una “zona remota dell’Europa dell’est” che non è ancora stata tradita dalla modernità.

L’ambientazione iniziale è un luogo situato fuori dal tempo, governato da leggi sciamaniche e credenze folkloriche. Nonostante questo, non mancano i riferimenti alla Storia in senso moderno. Il tema che viene sviscerato è quello della malattia in ogni sua forma, sia psichica che fisica, a cui si aggiunge l’indagine di temi come quello della sessualità in ogni sua accezione, da quella ingenua e naturale fino a quella dell’abuso. La vicenda che viene proposta è quindi solo di primo acchito legata alla vita del singolo, per spostarsi definitivamente sulla questione dell’umanità in senso collettivo.

L’effetto straniante sullo spettatore è reso ancora più evidente dalla scarsa presenza di dialoghi, che perlopiù sono realizzati utilizzando una lingua artificiale, l’interslavo, versione slava dell’esperanto proposta dal linguista Jan von Steenbergen. Un film in cui si respira molto la presenza di riferimenti esterni come a Andrej Tarkovskij e che cerca di recuperare la “voce perduta” dell’umanità.

Já, Olga Hepnarová (Io, Olga Hepnarová) è invece un film del 2016, co-diretto dai registi Tomáš Weinreb (1982) e Petr Kazda (1978), che ne hanno curato anche la sceneggiatura. Se in Nabarvené ptáče l’assenza di colore era funzionale alla creazione di un senso di straniamento e di distacco dalla dimensione reale, nel caso di questa seconda pellicola la scelta di adottare il b/w è subordinata all’intenzione di trasporre in 105 minuti un avvenimento storico che risale alla Cecoslovacchia del 1973.

Al centro della pellicola vi è, per l’appunto, la vicenda di Olga Hepnarová, interpretata da Michalina Olszańska, passata alla storia per aver investito e ucciso otto persone nel centro di Praga e per essere stata l’ultima persona ad esser stata condannata alla pena di morte prima della sua abolizione sul territorio cecoslovacco. Lungi dall’essere una mera riproduzione della vicenda, il film sviluppa piuttosto un’ampia riflessione intorno alla figura non solo di Hepnarová, ma anche nei confronti di coloro che le gravitavano intorno. A tal proposito, Weinreb si presenta tutt’altro che impreparato, avendo girato nel 2009 il breve docufilm Všechno ja sračka (È tutto una merda) incentrato su Miroslav David, figura particolarmente vicina a Hepnarová e presente nel film del 2016 con l’interpretazione di Martin Pechlát. 

Já, Olga Hepnarová è uno spaccato sulla società cecoslovacca della Normalizzazione, una disamina degli effetti delle imposizioni sul singolo. La cinepresa segue la vita della giovane Olga, cercando di svelare i motivi che l’hanno portata a vendicarsi della società compiendo quel suo tragico gesto. Il risultato è un’ottima pellicola costruita su un approccio introspettivo in cui la narrazione di un dramma esistenziale prende le giuste distanze dalla sua protagonista.

Il bianco e nero e la Nová Vlna

Il bianco e nero, nel suo senso traduzionale, ha accompagnato a lungo la produzione cinematografica ceca, a partire dalle sue origini sino alla Nová Vlna – una delle stagioni più importanti del cinema europeo tout court. Seguendo una prospettiva del tutto personale, si propone qui di seguito una breve retrospettiva di alcuni film che meritano una nuova o rinnovata attenzione ancora oggi.

Pensando al cinema ceco del Novecento salta immediatamente alla mente la produzione della regista Věra Chytilová (1929-2014) e, nello specifico, il suo Sedmikrásky (Le margheritine). Del 1966 Tuttavia, ad essere particolarmente interessante è anche O něčem jiném (Qualcosa di diverso) del 1963. Premiato al Festival di Mannheim, è la prima vera pellicola di cui Chytilová cura sia la sceneggiatura che la regia. L’aspetto più interessante è la modalità con cui viene costruita la vicenda, ovvero portando avanti in modo parallelo le storie delle due protagoniste, Eva e Věra, che rappresentano due esempi di donne che, per quanto distanti, sono riconducibili a una condizione di crisi che le accomuna. A essere centrale in Chytilová è proprio questo problema del rapporto dell’individuo con la società, declinato in modi differenti: se in O něčem jiném la complessità della struttura bipartita cela una prospettiva piuttosto classica di quest’analisi, Sedmykrásky cerca di superare questo limite.

Un secondo nome che lo spettatore italiano associa a questa stagione cinematografica è quello di Miloš Forman (1932-2018), che viene principalmente associato a quei capolavori ampiamente premiati dalla critica occidentale, come il più famoso Amedeus (1984). Tuttavia, la sua primissima produzione presenta degli aspetti interessanti e pellicole particolarmente riuscite. Tra queste il suo primo lungometraggio del 1963 Černý Petr (L’asso di picche) o Lásky jedné plavovlásky (Gli amori di una bionda) di due anni più tardi. 

Non si può parlare di Nová Vlna e, molto probabilmente, di cinema ceco senza un riferimento a Jiří Menzel (1938-2020). Maestro della cinematografia, si devono a lui alcune delle migliori trasposizioni cinematografiche di opere che sono divenute dei veri e propri classici della letteratura ceca novecentesca. Ostře sledované vlaky (Treni strettamente sorvegliati) è tratto dall’omonima opera di Bohumil Hrabal e distribuito nel 1966. Vincitore del Premio Oscar al miglior film straniero nel 1967, la storia rappresentata è quella del giovane Miloš che consuma il suo dramma personale, dettato dall’incapacità fisica di accontentare l’amata Máša. Nel frattempo, in Europa si sta scatenando l’inferno: il secondo conflitto mondiale sta dilaniando il continente e questo sconvolge anche la vita interna al microcosmo della stazione in cui è ambientata la pellicola. Hrabal non è l’unico scrittore di cui Menzel ha trasposto un’opera letteraria, difatti nel 1967 realizza un film a colori tratto da Rozmarné léto (Un’estate capricciosa) di Vladislav Vančura. Inoltre, da citare il fatto che nello stesso anno František Vláčil (1924-1999) è regista di un’ottima pellicola tratta da un altro romanzo di Vančura, Marketa Lazarová.

Jan Něměc (1936-2016), tra i registi cechi più conosciuti in Italia, realizza nel 1964 il film Démanty noci (I diamanti della notte). Tratto dalla raccolta di racconti di Arnošt Lustig, in esso viene tematizzata la questione dei lager attraverso le vicende legate al difficile ritorno a casa di Ladislav Janský e Antonín Kumbera, due giovani ebrei fuggiti alla deportazione. Due anni più tardi Němec gira O slavnosti a hostech (La festa e gli ospiti), pellicola che presenta tutt’altra ambientazione e atmosfera, dove la dimensione festiva e ludica viene dominata da uno sguardo profondamente psicologico. Tra l’altro, O slavnosti a hostech vede anche il contributo di Ester Krumbachová, importantissima figura che collaborò con diversi dei registi qui citati.

Parlando di trasposizioni cinematografiche di opere chiave del panorama letterario ceco del secolo scorso, occorre citarne almeno altre due. Nel 1968, l’anno dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, Juraj Herz (1934-2018) mise su pellicola le vicende narrate da Ladislav Fuks nel romanzo Spalovač mrtvol (Il bruciacadaveri). Probabilmente uno dei film cechi più famosi in Italia, soprattutto grazie al rinnovato interesse per il romanzo ripubblicato nel 2019 dalla casa editrice Miraggi Edizioni. Allo spettatore vengono narrate le vicende del protagonista Karel Kopfrkingl in un’atmosfera permeata dal male. Herz porta su schermo una profonda disamina del rapporto dell’uomo con il male in chiave psicologica, dove l’ambientazione prescelta è quella degli anni del Nazismo e del Protettorato di Boemia e Moravia. Sempre nel 1968 fu Jaromir Jireš (1935-2001) a trasporre in pellicola Žert (Lo scherzo), primo romanzo di Milan Kundera. Quest’ultima è, per certi versi, meno fedele delle due precedenti – soprattutto per la scelta del regista di sacrificare, costretto anche forse dalla complessità della struttura del romanzo kunderiano, alcune scene che svolgono un ruolo chiave nella narrazione. Nonostante ciò, Žert è sicuramente un film chiave nella produzione di Jireš, regista nel 1963 di Křik (L’urlo) e nel 1970 di Valerie a týden divů (Valeria e la settimana delle meraviglie), film a colori tratto dall’omonimo romanzo di Vítězslav Nezval. 

Questa tradizione della trasposizione cinematografica che ebbe una certa fortuna negli anni Sessanta trova le sue origini già nelle sperimentazioni degli anni Trenta e Quaranta. Un caso emblematico è rappresentato da Otakar Vávra (1911-2011), regista che rientra nel canone estetico della Nová Vlna ma che appartiene a una generazione precedente. Egli è regista di pellicole come Panenství (Verginità) tratto nel 1937 dall’omonima opera della scrittrice e giornalista Marie Majerová o Krakatit (Krakatite), trasposizione del 1947 tratta dal romanzo di Karel Čapek. Tuttavia, ad essere riconosciuta come l’opera cardine della produzione di Vávra è un film del 1969, Kladivo na čarodějnice (lett. Martello per le streghe, ma conosciuto in inglese col titolo Witchhammer). Basato su un romanzo scritto da Václav Kaplický sei anni prima, il film è ambientato nella Moravia del XVII secolo. Nonostante l’ambientazione situata in un’epoca a tratti lontana, non è difficile leggere nelle scelte di Kaplický e di Vávra un intento critico e a tratti allegorico nei confronti dell’epoca stalinista. Proprio queste suggestioni impedirono una distribuzione integrale del film sino a dopo la Rivoluzione di Velluto del 1989.

Infine, occorre ancora citare un film corale che ha segnato, in un certo senso, l’inizio di questo movimento cinematografico. Nel 1965 venne presentato nelle sale ceche Perličky na dně (Le perline sul fondo), una sorta di Boccaccio ’70 ceco tratto da alcuni racconti di Perlička na dně (La perlina sul fondo) di Hrabal. Definito dallo scrittore Josef Škvorecký come una sorta di “manifesto” della Nová Vlna, alla realizzazione di questo capolavoro del cinema ceco degli anni Sessanta collaborarono numerosi registi dell’epoca: i già citati Menzel, Chytilová, Němec, Jireš, a cui si aggiunge Evald Schorm (1931-1988).

A conclusione di questo breve excursus, si può notare come il cinema ceco abbia sempre avuto una profonda comunicazione con altre forme d’arte. In questo articolo si sono messi evidenziati alcuni legami con la tradizione letteraria, ma ciò accade anche in ambito artistico, come nel caso di alcuni dei lavori di Jan Švankmajer (1934). Entrare in contatto con i film cechi non solo novecenteschi ma anche contemporanei significa mettere mano anche in altre forme espressive che permettono un incontro con la cultura ceca in senso ampio. Inoltre, come si può dedurre sbirciando alle trame delle diverse pellicole, spesso queste sono luogo di rielaborazione di eventi storici, nonché di tematiche psicologiche e introspettive che hanno un’enorme risonanza ancora oggi nel tentativo di comprendere il passato e la contemporaneità.

* Martina Mecco è dottoranda in Studi germanici e slavi presso l’Università La Sapienza di Roma e l’Univerzita Karlova di Praga. I suoi studi si concentrano sulla letteratura e la critica ceca degli anni Venti e Trenta. Cofondatrice del progetto Andergraund Rivista, è anche membro attivo della redazione di Est/ranei.

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