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I trentaquattro anni d’indipendenza dell’Armenia e la rielaborazione dell’identità nazionale

Lo scorso 23 agosto il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha pubblicato un comunicato stampa in occasione del trentacinquesimo anniversario dall’adozione della dichiarazione di indipendenza dell’Armenia nel 1990. Il paese avrebbe raggiunto la piena sovranità un anno più tardi con un referendum svoltosi il 21 settembre 1991, ma quel primo passaggio fu fondamentale perché definì la natura ideologica e le istituzioni del nuovo Stato.

Il premier ha usato la ricorrenza per attaccare certe logiche che portarono all’adozione della dichiarazione, figlia, secondo Pashinyan, di un patriottismo che “limitava la piena espressione della nostra indipendenza reale”. L’attuale primo ministro ha, in particolare, criticato il Movimento del Karabakh, ovvero le azioni di massa con cui gli armeni si mobilitarono a partire dalla fine del 1987 per ottenere l’unione della regione del Nagorno-Karabakh (all’epoca parte della Repubblica Socialista Azera) all’Armenia.

La Dichiarazione rifletteva essenzialmente l’umore collettivo dell’élite politica e intellettuale in Armenia al momento della sua adozione.

[…]

Le disposizioni ideologiche della Dichiarazione erano contraddittorie. Esse riflettevano il modello di patriottismo collettivo che ci era stato instillato dall’Unione Sovietica, goccia a goccia ma in modo costante, a partire dagli anni Cinquanta, nel contesto della Cortina di Ferro e della Guerra Fredda. Quel modello di patriottismo, elaborato dall’Urss per gli armeni, esprimeva l’orientamento sud-occidentale delle ambizioni sovietiche, di uno stato che aveva vinto la Seconda guerra mondiale ed era entrato in conflitto con l’Alleanza Atlantica. Allo stesso tempo, tale modello era concepito per garantire l’esportazione delle percezioni patriottiche dalla RSS Armena verso l’esterno, impedendone una piena espressione locale.

Nikol Pashinyan, 23 agosto 2025

Come Pashinyan ha contestualizzato la dichiarazione d’indipendenza all’epoca in cui venne scritta, così si possono comprendere le parole del primo ministro solo alla luce degli eventi nei trentaquattro anni d’indipendenza dell’Armenia. In questo lasso di tempo relativamente breve il paese ha vissuto, tra le altre cose: due guerre e una serie di schermaglie “minori” con l’Azerbaigian, una vittoria militare pagata a caro prezzo e una sconfitta foriera di lutti e sofferenze, una gravissima crisi economica, un enorme movimento emigratorio e una rivoluzione (2018) che ha portato molte speranze, poi infrante.

L’eredità del Nagorno-Karabakh

Proprio la questione del Nagorno-Karabakh, menzionata da Pashinyan, ha influenzato in modo sproporzionato la vita dello stato armeno contemporaneo. Senza dilungarci sulla storia di questo territorio (la trovate qui), possiamo analizzare cosa essa ha significato per l’Armenia e il nazionalismo armeno.

Come detto, prima ancora di raggiungere l’indipendenza dall’Unione Sovietica, gli armeni in Armenia, in Nagorno-Karabakh e all’estero si attivarono per ottenere la sovranità di Erevan sulla regione. La vittoria della guerra, conclusasi nel 1994, portò con sé sacrifici che da molti furono sentiti come un male necessario. Il Nagorno-Karabakh veniva, infatti, percepito da tanti nel paese del Caucaso come il riscatto parziale per il genocidio armeno e per la perdita dell’Armenia occidentale (così definita nella dichiarazione d’indipendenza), ovvero le aree attualmente in Turchia orientale e che fino al 1917 erano popolate da armeni caduti vittime delle violenze perpetrate dall’Impero ottomano.

11. La Repubblica di Armenia sostiene il compito di ottenere il riconoscimento internazionale del genocidio del 1915 nell’Impero Ottomano e nell’Armenia occidentale.

Un estratto della dichiarazione d’indipendenza (1990)

Questa tendenza si confermò negli anni seguenti. Con la necessità di garantire la sicurezza del Nagorno-Karabakh si giustificarono le ristrettezze economiche, i severissimi obblighi di leva per la popolazione maschile, l’isolamento internazionale dell’Armenia (che non intrattiene rapporti diplomatici con Azerbaigian e Turchia, due dei quattro stati con cui confina) e l’alleanza con la Russia, trasformatasi in una vera e propria dipendenza sul piano della sicurezza ed economico.

E non è un caso se il paese sarebbe stato dominato per un ventennio da una classe politica proveniente proprio dal Nagorno-Karabakh che, ancor oggi, costituisce il maggior movimento di opposizione e ha prodotto due dei sei presidenti dell’Armenia indipendente: Robert Kocharyan (1998-2008) e Serzh Sargsyan (2008-2018).

Ararat, confine turco-armeno
Vista su Erevan e il monte Ararat, simbolo dell’identità armena, ma in territorio turco (Meridiano 13/Aleksej Tilman)

La sconfitta militare e la nuova indipendenza dell’Armenia

Tra il 2020 e il 2023 l’Azerbaigian ha riconquistato militarmente il Nagorno-Karabakh, prima affamandone la popolazione armena per nove mesi e poi costringendola alla fuga in Armenia nel settembre 2023 (dinamiche che, per altro, richiamano situazioni in corso in altre aree del mondo).

Tutto ciò ha costituito un cambiamento radicale per l’Armenia. Il Nagorno-Karabakh per cui tanto si era sacrificato e che veniva percepito come la chiave di volta per la sicurezza del paese non esiste più. Al fronte sono caduti più di 6mila armeni e oltre 100mila si sono ritrovati sfollati. Nonostante la catastrofe e le inevitabili critiche di una fetta dell’opinione pubblica, Pashinyan è rimasto saldamente al governo.

Come spiegare questa relativa stabilità interna? Forse nella popolazione armena c’era la consapevolezza dell’impossibilità di impedire a un paese ricco di materie prime e alleato della Turchia come l’Azerbaigian di risolvere la situazione militarmente. O magari nella società c’era un certa stanchezza per tutti i sacrifici legati al Nagorno-Karabakh. Più probabilmente una combinazione delle due cose insieme ad altri fattori, quali l’impopolarità delle forze di opposizione contro le quali si era fatta una rivoluzione dal basso nel 2018.

Sta di fatto che dal 2021 il governo armeno sta spingendo per un accordo di pace con l’Azerbaigian e per la riapertura dei rapporti diplomatici con la Turchia anche a costo di dolorosi sacrifici. Erevan ha anche preso, nel limite del possibile, le distanze dalla Russia, rea di non aver garantito la sicurezza dell’Armenia, avvicinandosi contestualmente all’Unione Europea.

Tra i sacrifici simbolicamente dolorosi, la rimozione del monte Ararat dai timbri che vengono stampati sui passaporti all’ingresso in Armenia, ne ha scritto Luna De Bartolo in questo articolo.

A livello interno, Pashinyan promuove l’ideologia di una “Armenia reale” in contrasto con la “Armenia storica”. In altre parole, come ha ribadito il 23 agosto, sostiene che garantire la sicurezza del territorio internazionalmente riconosciuto come parte del paese invece di pensare di riottenere in qualche modo tutte quelle aree che un tempo erano popolate da armeni prima del genocidio, sia l’unico modo di raggiungere una vera sovranità. 

Il nostro stato, la Repubblica di Armenia, con il suo territorio sovrano di 29.743 chilometri quadrati riconosciuto a livello internazionale, è il valore più importante che possediamo e che abbiamo avuto da più di 500 anni.

Nikol Pashinyan, 23 agosto 2025

È un salto narrativo enorme, che ha portato il governo allo scontro frontale con le forze più tradizionaliste quali la Chiesa apostolica armena e la diaspora. Per il momento tale approccio pragmatico sta pagando: ad agosto si è fatto un passo importante verso la normalizzazione con l’Azerbaigian e un dialogo è aperto da tempo con la Turchia.

Rimane da vedere se questo processo supererà la prova delle elezioni parlamentari del 2026 e del referendum costituzionale che sarà necessario per la firma dell’accordo di pace con Baku. Un altro punto interrogativo è se la traballante democrazia armena riuscirà a superare la polarizzazione e l’accentramento di potere intorno alla figura di Pashinyan di questi ultimi anni.

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Aleksej Tilman
Aleksej Tilman

Nato a Milano, attualmente abita a Vienna, dopo aver vissuto ad Astana, Bruxelles e Tbilisi, lavorando per l’Osce e il Parlamento Europeo. Ha risieduto due anni nella capitale della Georgia, specializzandosi sulle dinamiche politiche e sociali dell’area caucasica all’Università Ivane Javakhishvili. Oltre che per Meridiano 13, scrive e ha scritto della regione per Valigia Blu, New Eastern Europe, East Journal e altre testate.