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Monumento dedicato a Mesrop Mashtots davanti al Matenadaran, Erevan Wikimedia
La cultura armena riserva un posto importante al mondo dei manoscritti e dei libri. Non è un caso che, fin dal Cinquecento, centri di studio e stampa sono sorti lì dove la diaspora armena si è stabilita, a Venezia, Roma, Costantinopoli, Amsterdam o in località al di fuori dal continente europeo. Proprio a Venezia venne stampato nel 1512 il primo libro in lingua armena, Urbatagirk (letteralmente, “Il libro del venerdì”).
Urbatagirk, il primo libro armeno a stampa, Venezia, 1512 (Wikimedia)
Tuttavia, anche in patria vi sono dei luoghi chiave della lingua armena scritta. Uno in particolare, che attende i visitatori della capitale Erevan, è il Matenadaran, un imponente edificio che custodisce il più grande patrimonio di manoscritti in lingua armena.
Attivo da secoli come archivio di testi antichi, rari, sacri e di pregio (non solo in armeno), il Matenadaran ha cambiato sede nel corso del Novecento, restando tuttavia un punto di riferimento tanto per gli armeni che per gli stranieri che intendono avventurarsi nel labirinto affascinante dell’antica e ricca cultura di questo paese. Lo troviamo così citato da una nota traduttrice sovietica, Marija Petrovych, che lo visitò durante il suo soggiorno di studio in Armenia, nonché ce ne imbattiamo tra gli appunti di viaggio dello scrittore Andrej Bitov.
Poeti-traduttori russi e l’Armenia
Benché alcune traduzioni di poesia armena verso la lingua russa iniziarono a comparire già nell’Ottocento, il fascino e l’amore per la letteratura (e più in generale per la cultura) di questo paese caucasico fiorirono in Russia soprattutto nel corso del Novecento. Oltre al noto Viaggio in Armenia di Osip Mandel’štam (1933), sono molti i volumi dedicati al paese scritti da autori russi: dal libro culto di Andrej Bitov Lezioni armene (1969) a Il bene sia con voi! dell’autore del capolavoro Vita e destino, Vasilij Grossman (1965).
In molti casi la passione per l’Armenia si è letteralmente ‘tradotta’ in traduzioni, che hanno reso disponibili al pubblico russo i capolavori di questa civiltà letteraria. Va senz’altro ricordato a tal proposito il progetto editoriale curato dal poeta decadentista-simbolista Valerij Brjusov che, all’indomani del genocidio del 1915, radunò una serie di colleghi di prim’ordine (da Aleksandr Blok a Fëdor Sologub, da Vladislav Chodasevič a Ivan Bunin, per citare i più noti anche al pubblico italiano) per lavorare alla traduzione di una vastissima antologia di poesia armena dalle origini alla contemporaneità (qui il pdf del volume, uscito nel 1916). Scrive Brjusov nella prefazione che la poesia armena è la “prova di nobiltà” del popolo armeno (p. 14).
In epoca sovietica l’interesse per la traduzione, soprattutto di testi letterari e da/verso lingue dell’Unione Sovietica, godette di grande interesse e riconoscimento (e per molti autori fu anche l’unica fonte di reddito, a causa della censura sulle proprie opere). Attraverso la traduzione verso la lingua russa, divennero accessibili le tradizioni letterarie di tantissime culture prima inaccessibili a causa della barriera linguistica.
La diffusa pratica del podstročnik (la traduzione interlineare) permetteva ai poeti e agli scrittori russi, che spesso non conoscevano la lingua dell’originale, di approntare rese adeguate dei testi su cui lavoravano. Alcuni poeti-traduttori sovietici in particolare si rivelarono degli incredibili talenti in questo senso, capaci di sopperire alla mancata conoscenza della lingua attraverso uno studio accurato, un orecchio fine e un’intuizione vincente. Tra loro va senz’altro ricordata la già citata Marija Petrovych, traduttrice di molti poeti e poetesse d’Armenia (oltre che di autori di tantissime altre repubbliche sovietiche e altri paesi) e a sua volta autrice, benché in vita vide pubblicato (proprio a Erevan) un solo volume di sue poesie.
Marija Petrovych nell’autunno del 1944 si recò in Armenia per approfondire la conoscenza del paese le cui opere letterarie avrebbe dovuto rendere in russo. Fu un “autunno indimenticabile”, scrisse, durante il quale visitò, tra le altre cose, la cattedrale di Echmiadzin, il lago Sevan e, sottolinea, “chiaramente andammo anche al Matenadaran”.
In effetti, se parliamo di civiltà letteraria armena, il Matenadaran è un luogo, un’istituzione, un simbolo che non può essere tralasciato. Letteralmente, il suo nome significa “archivio di manoscritti o libri”.
Chi ha visitato Erevan lo ricorderà: si tratta di un edificio imponente, in marmo e basalto color grigio-sabbia; ad accogliere il visitatore di questo vastissimo archivio, biblioteca, museo e centro di studi, c’è un’enorme statua raffigurante l’inventore dell’alfabeto armeno, il monaco linguista Mesrop Mashtots (361-440).
Ricordato tra i punti di interesse nelle brochure turistiche, il Matenadaran è incluso dal 1997-1998 nel programma Unesco “Memoria del mondo” e preserva la maggior collezione al mondo di manoscritti antico-armeni (più di 11mila), oltre a testi in lingua araba, persiana, latina, greca, etiope, ebraica, siriaca, antico-russa, cinese, indiana, georgiana.
Un manoscritto conservato al Matenadaran (Meridiano 13/Martina Napolitano)
Tuttavia, il Matenaradan che vediamo oggi non è l’edificio che visitò Marija Petrovych, dato che l’attuale venne costruito tra il 1945 e il 1959 (su progetto dell’architetto Mark Grigorian) per poi venire ampliato più recentemente, nel 2011.
Interno del Matanadaran (Meridiano 13/Martina Napolitano)
L’istituzione del Matenadaran trae infatti le sue origini fuori da Erevan, nella cattedrale di Echmiadzin (Santa Sede della chiesa armena), dove a partire almeno dal 1441 e fino al 1915 si preservarono manoscritti. Stando all’inventario del 1913 il Matenadaran di Echmiadzin comprendeva già 4.060 testi (completi o frammenti).
Tra 1915 e 1922 la collezione fu portata a Mosca in seguito alla prima guerra mondiale e al genocidio. Nel 1939 fu deciso di spostare l’archivio da Echmiadzin alla capitale armena che accolse il Matenadaran (allora comprendente 9.690 testi armeni e 675 testi in altre lingue) poco distante dall’edificio attuale, nella biblioteca statale. È questa l’istituzione che visitò la poetessa-traduttrice Marija Petrovych.
Oggi tra i 17.260 manoscritti raccolti nel nuovo imponente Matenadaran di Erevan, si trovano le più antiche testimonianza della cultura scritta armena, ossia dei frammenti di pergamena dei secoli V-VI, e il più antico manoscritto armeno completo giunto a noi, un Vangelo del VII secolo.
Il volume più piccolo conservato è un minuscolo calendario risalente al 1434 che pesa appena 19 grammi e ha le dimensioni di una scatola di fiammiferi. Il più grande è invece la raccolta di omelie (Omilario) di Mush del 1202, del peso di 27 chili e mezzo e, stando ai racconti della tradizione, diviso in due parti nel 1915 pur di salvarlo dalla distruzione del genocidio: un monumento, installato nel 2012 in un parco poco distante dal teatro dell’opera di Erevan, ricorda le due donne che lo avrebbero scisso e così preservato (la storia del manoscritto ha anche ispiratoIl libro di Mush della studiosa e scrittrice Antonia Arslan).
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.