Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:

  • IBAN IT73P0548412500CC0561000940
  • Banca Civibank
  • Intestato a Meridiano 13

Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.

Dona con PayPal

Željko Obradović, l’uomo che ha cambiato per sempre il basket europeo

di Matteo Fabbri*

Želimir Obradović, detto Željko, cominciò ad allenare ben prima di sedersi su una panchina. Già da playmaker del Partizan Belgrado (con cui vinse un campionato jugoslavo e una Coppa Korać) ragionava come un coach: parlava, correggeva, leggeva il gioco come se fosse già a lato del parquet. Così quando nel 1991, a trentuno anni, il Partizan gli offrì il posto da capo allenatore capì che non si trattava di cambiare mestiere, ma solo punto di vista.

Lasciò la nazionale jugoslava alla vigilia dell’europeo di Roma rinunciando al ruolo di capitano di una delle squadre più forti del continente per accettare la panchina del Partizan. Non fu una scelta semplice. Era appena rientrato in campo dopo un periodo complesso. Un incidente stradale che portò al carcere e la leva militare lo tennero lontano dal parquet per diverso tempo. Ma il peggio era passato e davanti a sé avrebbe avuto ancora qualche anno ad alto livello.

Chiese al Partizan di poter giocare almeno l’Europeo, ma dal club arrivò un ultimatum: per allenare a Belgrado, non sarebbe dovuto partire per Roma. Ci pensò per una notte intera. Alla fine, per fortuna della pallacanestro mondiale, Obradović non prese quel volo con i suoi compagni. Una decisione figlia del suo straordinario intuito che ha cambiato per sempre il basket europeo.

In quella stagione, a causa delle sanzioni Onu legate al conflitto jugoslavo, il Partizan dovette disputare le partite casalinghe europee a Fuenlabrada, nei dintorni di Madrid. La squadra era giovanissima, forse troppo. Meno di ventidue anni di media e Dragisa Šarić come unico over 30. Poi c’erano due ragazzi serbi destinati a diventare simboli del basket continentale: Aleksandar Đorđević e Predrag Danilović.

Accanto a Obradović sedeva il “professore” Aleksandar Nikolić, considerato il padre della pallacanestro serba e jugoslava. L’esperienza di Nikolić fu fondamentale per la crescita tecnica del giovane coach del Partizan. Ciò che invece non mancava all’ex playmaker della nazionale jugoslava, nonostante l’età, era la leadership necessaria a guidare un gruppo così giovane.

Il resto è storia: nella finale di Istanbul un tiro allo scadere di Đorđević consegnò al Partizan la Coppa dei Campioni. Quella squadra scrisse una delle pagine più sorprendenti e romantiche del basket europeo. E quella vittoria fu anche la presentazione al mondo di un nuovo tipo di allenatore: feroce, esigente, ossessivo nel dettaglio, ma capace di reggere spogliatoi fragili e contesti complicati, non solo sportivi, visto quello che stava succedendo nei Balcani.

Spagna, Italia e la panchina della Nazionale

Dopo Belgrado, si trasferì a Badalona per guidare la Joventut. Lì ritrovò la squadra sconfitta in finale due anni prima. Il risultato fu il medesimo: Obradović insistette sul concetto di gruppo ancor prima che sugli aspetti tecnici e riuscì a creare una squadra in grado di vincere l’Eurolega. Questa volta a Tel Aviv contro i greci dell’Olympiacos, un team che ritroverà molte volte da avversario.

Poi tre anni al Real Madrid. Nella capitale spagnola Obradović si trovò ancora una volta di fronte ad una grande sfida e a guidare un gruppo con tante individualità (Arlauckas e Sabonis su tutte). I risultati in campionato non furono esaltanti ma al primo anno riuscì a centrare subito l’Eurolega, la terza della sua carriera. Durante quelle esperienze, affinò una lettura delle individualità difficile da trovare altrove.

Nel 1996 assunse la guida della nazionale jugoslava. La squadra portava sulle spalle le aspettative di un territorio a pezzi che ormai comprendeva solo Serbia e Montenegro e nel frattempo aveva cambiato nome in Repubblica Federale di Jugoslavia. Obradović condusse la nazionale ad un argento olimpico, all’oro europeo nel 1997 e a quello mondiale nel 1998. Entrare nella testa dei giocatori in una fase così dura per i popoli dei Balcani fu estremamente difficile. Una delle più grandi qualità che emerse in quella fase fu proprio la lucidità con cui riusciva a distinguere gli errori tecnici da quelli mentali. 

Nel 1997 si trasferì in Italia per allenare la Benetton Treviso, succedendo a Mike D’Antoni, in quella che forse rimarrà una delle esperienze meno fortunate della sua carriera. In bacheca “solo” una coppa Saporta ed esperienza terminata due anni dopo quando decise di provare una nuova avventura in Grecia al Panathīnaïkos.

Divinità greca

Tredici stagioni, ventisette finali, ventidue trofei, tra cui cinque Euroleghe e undici campionati. Numeri che raccontano l’impatto devastante avuto da Obradović al Panathīnaïkos. Ad Atene, Obradović divenne qualcosa di più di un allenatore e, ancora oggi, è una vera e propria leggenda. Un simbolo popolare. Ettore Messina, il secondo allenatore più vincente della storia del basket europeo, ha vinto in tutta la sua carriera un’Eurolega in meno (quattro) di quelle vinte da Obradović nella sua parentesi greca. 

“Andavi in campo e lui ti aveva preparato su tutto, sapeva tutto sia della nostra squadra che degli avversari” dirà Dimitris Diamantidis in un’intervista al canale ufficiale dell’Eurolega. Anche se la sua qualità migliore resta quella di “far diventare un insieme di giocatori un gruppo, una squadra che lottava per lo stesso obiettivo”.

Su questo concetto batterà tanto durante tutta la sua carriera. Per Obradović, l’aspetto mentale ha sempre avuto la stessa importanza di quello tecnico. Tanti talenti passati sotto la sua guida sono migliorati in maniera esponenziale da quel punto di vista. 

In Grecia allenò una squadra piena di stelle – Diamantidis, Spanoulis, Jasikevičius – riuscendo sempre a trovare la chiave per farle coesistere. Teneva il gruppo su una linea di tensione costante: chi sbagliava un taglio poteva restare fuori per una settimana; ma chi aveva dato tutto sapeva di poter contare su di lui. 

Ad Atene ci fu la sua vera e propria masterclass tattica. In attacco, Obradović costruì sistemi basati su pick-and-roll avanzati, spaziature precise e movimenti continui senza palla, mentre difensivamente pretendeva cambi sistematici sui blocchi, close-out preventivi e lunghi molto mobili. Quella squadra fu così influente a livello europeo e mondiale che Gregg Popovich, leggenda dei San Antonio Spurs, arrivò letteralmente a “rubare i suoi schemi”.

“Fuck you Gigi Datome!” e il ritorno al Partizan

Nel 2013 accettò la sfida del Fenerbahçe. Il basket turco era in crescita, ma non aveva ancora radici tecniche solide. Obradović ne costruì una cultura: in sette anni trasformò il club in una struttura all’avanguardia, con un centro tecnico moderno e uno scouting evoluto. Portò la squadra a disputare le sue prime due Final Four di Eurolega della storia nel 2015 (quarto posto) e nel 2016 (sconfitta in finale contro il CSKA di Mosca). Si riscattò l’anno successivo conquistando la prima storica Eurolega del Fener guidato da campioni come Bogdanović, Udoh e Datome. Era l’ulteriore conferma che il suo modello vincente poteva essere esportato in diverse realtà.

L’abbraccio con Gigi Datome dopo la finale è diventata una delle immagini-simbolo della sua carriera. L’italiano al termine della sua esperienza turca si è detto orgoglioso di aver giocato per il coach serbo e lo ha ringraziato per ogni singolo momento, anche per i ripetuti “fuck you Gigi Datome!” durante un time-out in Eurolega.

Nel 2020 si prese un anno sabbatico. A sessant’anni con nove titoli europei e decine di campionati in bacheca era già di gran lunga il miglior allenatore della storia di questa parte dell’Atlantico. Dopo aver costruito un impero anche in Turchia, sembrava che non ci fosse più nulla da dimostrare. Ma Obradović, come spesso nella sua carriera, aveva altri piani. Lo stop durò solo un anno perché nel 2021 decise di accettare una sfida tanto romantica quanto complicata. Torna al Partizan dopo ventotto anni per restituire dignità ad un club storico caduto in disgrazia e per rompere l’egemonia dei rivali cittadini della Stella Rossa. Probabilmente la sua sfida più difficile.

Costruisce da subito una squadra giovane, valorizzando giocatori come Avramović e Smailagić, (che oggi hanno lasciato la squadra). Alla seconda stagione in panchina, Obradović riporta il titolo al Partizan dopo dieci anni. Nel 2023 sfiora addirittura le Final Four di Eurolega, perdendo 3-2 una serie pazzesca nella quale conduceva 2-0 sul Real Madrid. Quest’anno è arrivato un nuovo trionfo in campionato. Se ad Atene viene considerato una divinità a Belgrado, sponda Partizan, è qualcosa di ancora più grande.

Rispetto alla sua prima esperienza la Serbia è cambiata profondamente, non solo sul parquet. Il Presidente nazionalista Aleksandar Vučić da anni continua ad accentrare su di sé anche lo spazio sportivo oltre che quello politico. Quando un esponente del suo Governo dichiarò che Partizan e Zvezda erano “progetti statali”, Obradović rispose con sarcasmo: “Se qualcuno crede che qui ci siano privilegi, venga a vedere le nostre bollette”. Nel 2024 inoltre decise di schierarsi con i giovani serbi nelle manifestazioni di piazza contro il Governo.

Time-out

Negli anni i video dei suoi time-out sono diventati leggendari, pur non assumendo mai un carattere folkloristico. Al contrario, raccontano la natura sistemica del suo metodo: rigido, passionale ma chirurgico, costruito su un equilibrio che alterna autorità e relazione. Uno che, se serve, spacca la lavagna. Ma poi si siede a spiegarti perché lo ha fatto.

Obradović li ha sempre utilizzati come spazio tecnico e insieme valvola di sfogo psicologica. A volte servivano per abbassare la pressione. Altre, per amplificarla. Recentemente è diventato celebre quello nella serie contro il Maccabi Tel Aviv, nell’ottobre 2023, quando il Partizan era sotto di ventuno punti. Le telecamere ripresero il momento in cui si voltò verso i suoi e disse: “Loro giocano duro, combattono! Voi recitate. Se volete fare gli attori, cambiate sport. Siate dei ca**o di giocatori!”. Dopo la partita, non accusò i singoli, ma parlò di “distanza tra la partita e l’allenamento”, come se la sua vera battaglia fosse sempre altrove, tra l’identità di squadra e la tenuta mentale.

Željko Obradović (Aba Liga j.t.d/Dragana Stjepanović)

Col tempo, quei momenti hanno assunto un valore pedagogico. Non sono sfoghi teatrali, ma strumenti di controllo emotivo. In una conferenza stampa di qualche mese fa lo disse chiaramente: “A volte urlo per far passare un concetto in mezzo al rumore. Ma la parte difficile viene dopo: spiegare perché ho urlato”.

Al di là dei metodi, a restare è soprattutto la sostanza. Il valore di Obradović va oltre i numeri pazzeschi della sua carriera — nove Euroleghe, decine di titoli — e si sostanzia nell’impronta culturale lasciata ovunque sia passato. La sua eredità risiede nel modo in cui ha creato cultura tecnica: sistematizzando il tempo in campo, diffondendo principi strutturali e mettendo giocatori in condizioni di ragionare, non solo di eseguire. Ha dimostrato che l’autorità può convivere con l’umanità.

Nei suoi schemi ci sono close-out, cambi maniacali, tagli. Ma a fare la differenza, nella sua carriera, è stata soprattutto la capacità di gestire i grandi campioni dal punto di vista psicologico unita ad uno straordinario intuito. E proprio grazie al suo intuito, che nel 1991 lo spinse a non salire su quell’aereo per Roma, è riuscito a cambiare per sempre il basket europeo.


*Da otto anni (di cui cinque trascorsi a Bruxelles) si occupa della normative europee relative al mercato interno e ai trasporti, prima nelle istituzioni, poi come stakeholder. Per oltre due anni collaboratore del Presidente del Parlamento europeo David Sassoli con il quale ha co-firmato una pubblicazione. Dal 2022 collabora con Linkiesta dove scrive di politica dell’UE e di Balcani. Grande appassionato di basket e di AC Milan.

Condividi l'articolo!
Redazione
Redazione