Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:
IBAN IT73P0548412500CC0561000940
Banca Civibank
Intestato a Meridiano 13
Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.
Una “mistica dell’Occidente”: a uno sguardo affrettato sulla sua figura e sulla sua storia, viene facile etichettare con questa espressione Umadevi, al secolo Wanda Dynowska – se non altro perché, nella stragrande maggioranza delle fotografie dov’è protagonista, appare con un sari e un bindi rosso in fronte, simbolo per eccellenza delle donne di fede induista. Del resto, lo si può capire dal nome e dall’aspetto, Dynowska non ha origini indiane ed è nata in un punto molto più a Ovest sulla carta geografica; eppure, è stata quanto di più lontano possa esserci dal cliché della persona bianca e occidentale, che si approccia alle culture altre appropriandosi e colonizzando. Poetessa e traduttrice, studiosa di induismo e buddhismo, attivista per la questione tibetana e l’indipendenza dell’India dall’impero britannico: Umadevi è un personaggio che vale la pena scoprire.
Se in Polonia, soprattutto negli ultimi anni, le sono stati dedicati studi e ricerche dal punto di vista accademico, e nel 2016 il regista indiano Tonmoy Das ha realizzato il documentario Enlightened Soul – The Three Names of Umadevi, in Italia Wanda Dynowska è pressoché sconosciuta, salvo per un libro uscito sugli scaffali l’anno scorso per Fazi Editore. L’autore, Maciej Bielawski, ha ricostruito la vita di Umadevi affidandosi alle fonti storiche e ai documenti: il risultato è un romanzo che restituisce una donna visionaria, che grazie all’amore per la conoscenza e la fiducia nell’essere umano ha costruito ponti tra la sua cultura di partenza e quella del paese in cui ha vissuto buona parte dei suoi giorni. “Ora questa persona, la sua storia e il mio mondo mi chiamavano” scrive Bielawski, “e mi sembrava di dover dare ascolto a questo richiamo”.
Teosofia, traduzione e pensiero libero
L’Europa orientale e poi quella centrale, qualche anno a Parigi e poi ritorno a est, stavolta nel sud dell’Asia: la vita di Dynowska è stata avventurosa, all’insegna della scoperta di sé e del mondo. Wanda nasce nel 1888 a San Pietroburgo in una famiglia polacca di nobili origini, che praticamente da subito la porta a vivere nella tenuta di campagna di Istalno, nel Governatorato di Livonia; lei e i suoi genitori fanno parte della szlachta, l’aristocrazia che con la fine della Confederazione polacco-lituana perde molti privilegi e si ribella sempre più al potere dello zar alla fine del Diciannovesimo secolo, con la nascita dei primi stati europei autonomi. Oltretutto i kresy, come nazionalisti e intellettuali chiamano i territori delle odierne Lettonia, Lituania, Belarus’ e Ucraina, sono considerati all’epoca la culla della civiltà di Polonia, sottomessa al giogo russo.
È soprattutto la madre Helena, di grande cultura e in contatto con i circoli letterari di Vilnius e Varsavia, a influenzare la personalità di Wanda; si dice che fosse molto cattolica ma interessata all’esoterismo, e in grado di comunicare con le presenze angeliche, le fate e gli spiriti della natura. Dynowska riceve un’educazione di tutto rispetto, imparando ben presto a parlare fluentemente il francese e l’italiano, l’inglese e lo spagnolo, oltre al russo che non apprezza granché: tutto ciò contribuisce a farla innamorare della filosofia e della letteratura, così come alla storia delle religioni. Nei primi decenni del Novecento, Wanda Dynowska abbraccerà sempre più il pensiero teosofico; si tratta di una dottrina che riunisce la cabbala e dell’occultismo allo studio diretto dei testi sacri e delle filosofie dalle provenienze più diverse, in nome del libero pensiero.
La teosofia, che si era sviluppata nel corso dei secoli a partire dal Quattrocento, conosce nuova popolarità attorno al 1875, quando la medium Helena Blavatsky fonda a New York la Theosophical Society, e si diffonde a macchia d’olio nei maggiori centri di cultura fino ad arrivare anche in Europa: proprio Dynowska diventerà segretaria generale della Società Teosofica di Varsavia nel 1923, occupandosi nello stesso periodo delle sue prime traduzioni di autori indù in polacco, così come di saggi teosofici dall’inglese. Umadevi pian piano sta nascendo, scopre i versi del pensatore Jiddu Krishnamurti e si innamora de Il Profeta di Kahlil Gibran, che traduce immediatamente; il 1935 sarà l’anno di svolta per Dynowska, che arrivata ad Adyar per un congresso della Società Teosofica, sceglie di restare in India nonostante dovesse rimanerci solo tre mesi.
La Società polacco-indiana e l’Antologia Indyjska
Ecco allora che Wanda Dynowska viaggia intensamente all’interno del paese, medita con il guru Shri Ramana Maharshi, diventa Umadevi, “portatrice di luce”: è Mahatma Gandhi a chiamarla così durante uno dei loro incontri. Secondo la mitologia indù, Uma era la figlia di Himavat, personificazione della catena dell’Himalaya, mentre Devi sta a indicare il divino al femminile – Umadevi lo utilizzerà in sostituzione, e qualche volta in accostamento, al proprio nome di battesimo. Ben presto avrà a che fare con il Congresso Nazionale Indiano e le sue lotte per affrancarsi dal dominio coloniale; Dynowska rivede nell’India il desiderio di rivalsa del popolo polacco contro l’amministrazione zarista e ne sposa completamente la causa, e negli anni della Seconda Guerra Mondiale comincia a lavorare a un progetto davvero speciale.
Dopo aver provato senza successo a rientrare in Polonia per vedere la madre, Umadevi si impegna a creare la Società polacco-indiana nel 1944: il suo obiettivo è far conoscere le culture, le arti e le letterature dell’India agli abitanti di Varsavia e Łódź, Gdynia e Cracovia, attraverso una ricerca continua e puntuale che in fondo riguarda tutti gli aspetti della società indiana. Val la pena notare che, per lei, l’impegno culturale va sempre di pari passo con l’attivismo politico e civile; Dynowska comincia a lavorare per la sezione stampa del consolato polacco a Mumbai e tiene lezioni nei campi profughi dove migliaia di polacchi arrivano a causa dell’invasione sovietica in patria. L’India peraltro è una delle prime nazioni ad accogliere questi cittadini in fuga grazie al Maharaja Ranjitsinhji Vibhaji, vicenda che è ancora poco nota a livello internazionale.
Nel 1947 Umadevi traduce il testo sacro Bhagavadgita, e tre anni più tardi pubblica la prima Antologia Indyjska polacca: ciascuno dei sei volumi tratta una tradizione letteraria in altrettante lingue. Per le sue traduzioni dal sanscrito, tamil, hindi, gujarati, marathi e bengali, Wanda mantiene dove possibile le parole originali per i concetti cardine religiosi e spirituali, dando risalto alle sfumature di significato più universali, in linea con la sua formazione teosofica. Ancora oggi, l’Antologia è considerata un’opera fondamentale. Durante la stesura, Umadevi non è mai rimasta sola; i suoi compagni di viaggio sono stati Maurycy Frydman, un ebreo polacco che ha adottato il nome indù Swami Bharatananda e padroneggia senza sforzo alcuni idiomi locali, e il collega al consolato Harishchandra Bhatt che le dà una grande mano nella revisione del lavoro.
Umadevi per la causa nazionale tibetana
L’avvicinamento al buddhismo da parte di Dynowska, che comunque non si pone mai limiti nel conoscere e approfondire confessioni diverse, inizia poco dopo l’assassinio di Gandhi nel 1947: oltre al dolore per la perdita, Umadevi soffre perché vede la religione strumentalizzata e usata come arma, durante gli scontri tra musulmani e indù che portano alla nascita del Pakistan nello stesso anno. In particolare, Wanda abbraccia la corrente mahayana della dottrina buddhista attorno al 1960, quando si sposta nel nord dell’India per occuparsi dei piccoli orfani dal Tibet vittime dell’invasione cinese; qui sarà nota come Tenzin Chodon, “custode della fede” in lingua tibetana. Impegnata nello studio con i monaci e nell’assistenza ai profughi, per la Società polacco-indiana si occupa di edizioni aggiornate di autori già usciti in precedenza, come Rabindranath Tagore.
Umadevi passerà gli due anni della sua vita in un convento di suore cattoliche a Mysore, nei pressi del più grande insediamento tibetano al di fuori del paese; nel decennio precedente è tornata un paio di volte in Polonia e ha incontrato Karol Wojtyła, il futuro Giovanni Paolo II, con cui ha discusso la necessità di organizzare aiuti umanitari per il Tibet.
Dynowska morirà nel 1971 mentre è immersa nella meditazione: secondo le sue ultime volontà, viene avvolta in un sari color porpora e le esequie funebri sono celebrate dall’arcivescovo di Mysore, poi a Bylakuppe il suo corpo è seppellito dalla comunità all’interno di uno stupa, un monumento buddista a scopo votivo. La “madre polacca”, come la ricorda affettuosamente il Dalai Lama Tenzin Gyatso che l’ha conosciuta, lascia dietro di sé uno degli insegnamenti più importanti per l’uomo: il valore dell’universale.
Si occupa di studi decoloniali nel Nuovo Est, in particolare eurasiatico. Laureato in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali all’Accademia di Brera, scrive d’arte contemporanea e identity politics per Antinomie – Rivista di scritture e immagini, Est/ranei – Letterature, cinema e culture dell’Est Europa e ha collaborato con il collettivo Altremuse; pubblica anche sull’edizione digitale di Harper’s Bazaar Italia.