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Da qualche decennio a questa parte hanno iniziato a circolare tutta una serie di pubblicazioni, serie televisive e lungometraggi aventi ad oggetto l’esodo giuliano dalmata e i cosiddetti massacri delle foibe. Attenzione morbosa e ossessiva, in particolare, è stata riservata alla figura di Norma Cossetto. Red Land (Rosso Istria), un film del 2018 diretto da Maximiliano Hernando Bruno, ne ripercorre grossolanamente la storia. La sua recensione è occasione per decostruire alcune narrazioni imperanti e riflettere su come il revisionismo storico in merito abbia influenzato l’opinione pubblica e la memoria collettiva del paese in maniera oramai consolidata.
Il 15 novembre 2018, in collaborazione con Rai Cinema e Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, esce nelle sale cinematografiche italiane Red Land (Rosso Istria), incassando appena 130mila euro al botteghino, nemmeno sufficienti a coprire i costi di produzione in parte sostenuti dalle regioni Lazio e Veneto. L’anno seguente il film viene mandato in onda su Rai 3 e tutt’ora la visione gratuita è consentita in streaming dall’Italia sulla piattaforma RaiPlay.
Un film sciatto, una trama banale
Prima di addentrarsi nella parte più importante di questo articolo, è bene concedersi delle brevi considerazioni stilistiche sul film oggetto dell’analisi.
Ancor prima della visione, la locandina fa già presagire la direzione che prenderà il lungometraggio, evidenziandone plasticamente gli intenti: un’accozzaglia di truci e aggressivi partigiani jugoslavi avanza minacciosa verso l’osservatore. E questa, sostanzialmente, rappresenta nella sua interezza l’idea che lo spettatore si fa della compagine slava nell’Istria dalla visione del film: persone arretrate, violente e dedite ai peggiori vizi. Gente rozza, costantemente stordita dall’alcol, spesso ripresa a fumare e bere. I protagonisti slavi sono gli stessi dall’inizio alla fine del film, non c’è evoluzione, non ci sono sfaccettature: immagine caricaturale e infantile del cattivo per eccellenza.
Di contro, gli italiani sono buoni e visibilmente differenti, a partire dagli abiti indossati e dall’aspetto, elegante e pulito. Si tratta di persone colte, istruite, civili. Hanno personalità poliedriche, che evolvono (sebbene in maniera banale) nel corso della pellicola. Alcuni di loro cedono alla propaganda comunista e si schierano con i partigiani, ma tutti presto o tardi se ne pentono e si ravvedono. Tra i fascisti che ricoprono ruoli istituzionali invece domina il senso del dovere, delle istituzioni, la fedeltà allo stato (e al duce) anche nei tragici giorni dell’armistizio. Non c’è traccia di violenza sulla popolazione occupata, di ritorsioni.
Insomma il cortometraggio ci regala una fotografia in bianco e nero, stereotipata e banalizzata, della complessità istriana degli anni Quaranta, nella quale è chiaro da che parte stia il bene e da che parte stia il male in termini certi e assoluti, e quale sia la fazione da prendere.
La prima immagine che ci regala la pellicola è quella di una foiba, dalla quale delle mani legate con del fil di ferro si protendono spasmodicamente verso l’alto in cerca d’aiuto. Poi le immagini passano alla contemporaneità, al magazzino 18 di Trieste dove sono conservate le masserizie dell’esodo giuliano-dalmata. Come ad affermare un nesso di causalità che, invece, non esiste e troppo spesso viene appositamente confuso per compiere della becera speculazione sui numeri: i cosiddetti massacri delle foibe avvengono in due momenti precisi tra il settembre e l’ottobre del 1943 e in seguito alla Liberazione del 1945 e riguardò 3mila persone circa in totale.
L’esodo giuliano-dalmata fu invece un fenomeno che riguardò circa 300mila individui appartenenti alla comunità italiana dell’Istria e della Dalmazia e si protrasse dal 1945 al 1956.
Per dare solidità testimoniale a tutto quanto verrà narrato – vero e presunto – la prima parola è fatta pronunciare da Giulia Visantrin, personaggio fittizio e fantomatica amica di Norma Cossetto, che avrebbe assistito all’interezza delle vicende riportate. Inizia quindi un flashback che ci riporta indietro al 1943.
Al 55esimo minuto ecco la prima violenza perpetrata dai partigiani, nell’arco di tutto il film mai nominati in quanto tali ma in quanto “titini”.
Ecco infatti la violenza cieca dei “titini” mostrarsi per la prima volta nei confronti della popolazione civile colpendo una ragazza, ovviamente oggetto di violenza carnale, rea di provenire da una famiglia mista composta da madre slovena e padre italiano.
Un’assurdità nel contesto meticcio dell’Istria di allora nata dalla necessità di disumanizzare lo “slavo-comunista” in lotta per la sua autodeterminazione contro l’occupazione italiana, dando in pasto al telespettatore medio l’immagine di un partigiano titino violento e libidinoso, degno progenitore di quei paramilitari che nel corso delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia degli anni Novanta utilizzeranno la violenza sessuale come strumento di guerra. Finendo con l’unire periodi storici e luoghi geografici differenti, facendo leva su quell’odioso e mai sradicato orientalismo latente che vede automaticamente gli slavi come popoli violenti, arretrati e incivili.
Poco più di un’ora dopo ecco la seconda violenza carnale ripresa nel corso dei 150 minuti di film: quella di gruppo sulla Cossetto. Immagini brutali, che vedono i partigiani costantemente ubriachi e in preda a febbrili deliri seviziare ripetutamente la protagonista, senza che l’inquadratura ne risparmi i macabri dettagli. Subito dopo le lunghissime sequenze, che insistono pruriginosamente e puntigliosamente sullo stupro, ecco i tedeschi (nazisti, ce lo ricordiamo?) rientrare finalmente a Visinada e ristabilire l’ordine, espellendo le forze partigiane dalla città. Si tratta del primo film italiano dal 1942 a dipingere le truppe naziste come liberatrici e ristoratrici dell’ordine civile, nel pieno della Seconda guerra mondiale e agli albori della guerra di Liberazione in Italia.
Civili francesi in fuga dall’avanzata delle truppe hitleriane nel 1940. La foto è stata utilizzata per la prima locandina di Rosso Istria con l’intento di rappresentare i civili italiani in fuga dai partigiani di Tito in Istria (Museo della Liberazione di Parigi)
D’altronde si tratta di un capovolgimento completo della realtà dei fatti in linea già con la primissima locandina del film, subito ritirata in favore di quella descritta poc’anzi (tra l’altro, curioso anche come nessuna delle locandine proposte per un film su Norma Cossetto mostri la protagonista): essa si prefiggeva di rappresentare gli italiani in fuga dall’Istria a causa delle violenze partigiane, ma la scelta disgraziatamente ricadde sulla foto di una carovana di civili francesi in fuga dai nazisti nel 1940.
Un po’ come quando Bruno Vespa, parlando delle foibe e della violenza anti-italiana dei titini in Istria e Dalmazia, mostrò in diretta la foto della fucilazione di un gruppo di partigiani sloveni da parte dell’esercito italiano durante l’occupazione della Jugoslavia. Ribaltandone completamente l’interpretazione. Se queste erano le premesse…
Contestualizzazione storica, questa sconosciuta
Per dare un quadro il più trasparente possibile della vita di Norma Cossetto un film storico degno di questo nome avrebbe dovuto allargare il campo quantomeno alla famiglia di origine, al contesto storico e politico dell’Istria degli anni Quaranta in generale e del settembre del 1943 nello specifico.In assenza, si cercherà di sopperire a queste mancanze di seguito.
Partiamo dalla famiglia. Il padre, Giuseppe Cossetto, non è un cittadino qualsiasi. Fascista della prima ora, ha partecipato alla marcia su Roma e possiede diverse proprietà in Istria, impiegando – come era allora usuale lungo il confine orientale – manodopera slava. Ha inoltre ricoperto il ruolo di podestà e segretario del fascio di Visinada (luogo di residenza della famiglia Cossetto).
Nel suo ruolo di commissario governativo delle casse rurali offre il suo contributo alla sottrazione delle terre agli slavi, una prassi ben rodata sin dagli anni Venti che prevede l’indebitamento forzato dei contadini “allogeni”, come amava definirli la burocrazia italiana, verso gli istituti di credito italiani. Dagli anni Trenta queste terre vengono cedute a coloni italiani, che si insediano sul territorio da possidenti terrieri e spesso mantengono la manodopera locale al proprio servizio, ridotta in stato di subalternità. Tra questi possidenti vi è anche Giuseppe Cossetto.
Dopo l’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio italiano, Cossetto padre fugge a Trieste. Non ci è dato sapere da cosa fugga nello specifico, ma possiamo immaginarlo: dopo anni di soprusi l’Istria e la Dalmazia sono insorte, e sebbene nelle città più grandi e nelle aree urbane in generale la rivolta abbia preso connotati rivoluzionari, nell’entroterra e nelle zone agricole la ribellione assume la forma di una vera e propria jacquerie anti-padronale. È da questa che Cossetto, probabilmente, fugge.
Quello che sappiamo per certo, invece, è al soldo di chi si metta a disposizione il buon Giuseppe: della Repubblica sociale italiana. Parteciperà alla campagna di rastrellamenti dell’Istria ai comandi dell’Unternehmen Istrien nazista, trovando la morte ai primi di ottobre. Contrariamente a quanto presentato da certa storiografia di parte e dagli stessi titoli di coda del film, quindi, non rientrò nella penisola istriana per cercare la figlia. All’arresto di Norma Cossetto Giuseppe si trovava già in Istria con la sua unità, ivi sopraggiunta già intorno al 2 ottobre.
Giuseppe Cossetto non era solo nel suo rientro in Istria. Era accompagnato dal sottotenente del Genio Mario Bellini, capomanipolo delle camicie nere e marito di Noemi Cossetto, cugina di Norma. Suo padre è Eugenio, anch’esso squadrista onorato della sciarpa littorio dal regime. Licia Cossetto, consanguinea di Norma e accanita sostenitrice sino alla morte avvenuta nel 2013 del ricordo della sorella, nell’edizione del Piccolo del 4 maggio 1944 viene citata come madrina del battaglione bersaglieri “Benito Mussolini” a Trieste. Nel settembre dello stesso anno sposa Guido Tarantola, ufficiale dell’aviazione della Repubblica di Salò.
Tutto questo per chiarire che la famiglia Cossetto non era una famiglia qualunque, e se i suoi componenti vennero messi nel mirino in quei fatidici quanto spasmodici giorni insurrezionali del 1943 non era “semplicemente perché erano italiani”, ma in quanto fascisti, occupatori e colonizzatori. Ma passiamo ora alle vicende storicamente accertate.
Per una questione di spazio in questa sede ci limitiamo a raccontare cosa accadde nel solo settembre-ottobre del 1943 in Istria, al fine di far comprendere al lettore in che contesto caotico avvenne l’uccisione di Norma Cossetto. Per un racconto più puntuale su cosa fu il fascismo di confine negli anni che precedettero il 1940, e che maturarono le condizioni per l’esplosione di tanta violenza, si rimanda all’articolo Confine orientale, il ricordo a metà.
Dopo l’armistizio italiano il confine orientale cade nel caos. Gruppi di sbandati tentano di rientrare in Italia, intere divisioni finiscono disarmate e deportate dai nazisti e molti entrano nelle file della Resistenza jugoslava. Il movimento partigiano, colto alla sprovvista, si affretta ad occupare il vuoto politico lasciato dai fascisti in maniera spesso spontanea, instaurando un po’ ovunque e in maniera non sempre coordinata nuove istituzioni di potere popolare. I simboli del vecchio regime vengono abbattuti, le figure colluse a vario titolo con il fascismo arrestate.
È in questo contesto caotico che diversi membri della famiglia Cossetto finiscono in manette. Tra questi lo zio Emanuele cade prigioniero il 24 settembre e Norma il 2 ottobre (contrariamente a quanto sostenuto, in malafede, da un intero filone di pensatori vicini all’estrema destra, che retrodata la cattura di Norma al 26 settembre a) per dare più giorni di tempo ai partigiani per seviziarla e b) per mascherare il ritorno del padre Giuseppe in Istria come un disperato tentativo di ricerca della figlia piuttosto che come riconquista della penisola istriana per conto del Terzo Reich. Al riguardo, si rimanda alla lettura dell’eccellente inchiesta condotta da Nicoletta Bourbaki e pubblicata da Wu Ming).
Se gli italiani risultano fuori combattimento i nazisti sono però ancora lungi dall’essere sconfitti. Il 25 settembre prende il via quella che passerà alla storiografia jugoslava come la “sesta offensiva”, che vede impiegati solo in Istria più di 50mila uomini, 110 carri armati e una squadriglia di aeroplani. Agli inizi di ottobre è evidente come le forze partigiane non possano mantenere il controllo delle zone liberate appena due settimane addietro, e iniziano svariate manovre di sganciamento verso est.
È allora che il gruppo di Norma Cossetto, composto da 26 prigionieri, resta bloccato a Tinjan, a sette chilometri da Pisino, a causa delle manovre belliche nazifasciste. È il 4 ottobre e i partigiani, impossibilitati a proseguire e con il rischio di essere catturati, decidono di disfarsi dei prigionieri occultandone i corpi nella foiba di Surani e darsi alla macchia. La liberazione degli stessi si era rivelata un tragico errore in diverse occasioni precedenti (Kanfanar e Nova Vas), quando dei delatori fascisti appena scarcerati avevano causato la cattura e l’esecuzione dei partigiani stessi.
Il 9 ottobre si conclude la sesta offensiva e inizia quella mediatica. L’Ozak (Zona d’operazioni del litorale adriatico, composta da Friuli, Venezia-Giulia e la provincia di Lubiana che fu) viene posta sotto il diretto controllo del Terzo Reich e in questo frangente, con lo scopo di fomentare il risentimento anti-slavo, viene messa in moto una vasta campagna di riesumazione degli infoibati che verrà puntualmente e morbosamente coperta dai mass-media del tempo.
Tra questi circa duecento cadaveri viene riesumata anche la salma di Norma Cossetto. A questo punto però, prima di trattare del corpo defunto della Cossetto e delle innumerevoli quanto divergenti dicerie sul suo conto, viene spontaneo chiedersi: cosa sappiamo con certezza di Norma Cossetto e dei suoi ultimi giorni di vita?
Cosa sappiamo davvero di Norma Cossetto?
In verità molto poco. Sappiamo che nacque il 17 maggio del 1920 a Visinada, in Istria, divenendo supplente presso le locali scuole e per questo qualificata come professoressa. Al momento della scomparsa era iscritta all’Università degli Studi di Padova, presso la quale avrebbe presto conseguito la laurea.
Visto il curriculum della famiglia di origine non stupisce che l’amica Andreina Bresciani, in un’intervista rilasciata a Frediano Sessi, la identifichi come una persona “intransigente”, che “partecipava con entusiasmo alle manifestazioni per la guerra d’Africa e non faceva mistero del suo nazionalismo spinto”. “Sentiva molto decisamente la sua italianità” al punto di affermare che “in Istria erano gli sloveni e i croati a essere fuori posto, perché gli italiani abitavano quella terra con più diritti”.
Contrariamente a quanto riportato da diverse fonti a partire dagli anni Ottanta, il relatore di tesi di Norma Cossetto non fu il padre della Costituzione repubblicana italiana, antifascista e politico comunista Concetto Marchesi, bensì il geografo irredentista Arrigo Lorenzi. Quanto al titolo della tesi stessa, invece, non esiste uno straccio di prova che sarebbe dovuto essere Rosso Istria – certo molto succoso per il facile parallelismo dai pittoreschi rimandi nazionalisti e irredentisti che da sempre accomuna il concetto di terra e di sangue, immancabilmente richiamato anche nel film per bocca della stessa Cossetto: “Io amo questa terra. Ha lo stesso colore del sangue che scorre nelle nostre vene”.
L’8 maggio 1949 Norma Cossetto viene insignita della laurea ad honorem dall’Università degli Studi di Padova, che nell’arco del decennio 1946-1956 la attribuisce a molti dei suoi studenti “caduti per la libertà o sul campo d’onore”.
Dai documenti inviati dalla famiglia Cossetto all’università per il conseguimento del titolo apprendiamo che Licia Cossetto il 29 aprile 1948 dichiarava che la sorella venne prelevata da casa il 2 ottobre del 1943 e infoibata ad Antignana due giorni dopo. L’atto di notorietà rilasciato dal comune di Novara il 22 aprile 1948 conferma questa tesi e aggiunge che il cadavere di Cossetto venne recuperato il 13 dicembre del 1943, in piena occupazione nazista dell’Istria. Anche l’atto di notorietà della pretura di Trieste, rilasciato il 5 agosto 1948, conferma le suddette date.
A partire dagli anni Ottanta si fa però largo la tesi secondo la quale Norma Cossetto fosse stata arrestata il 26 settembre, non il 2 ottobre. La stessa Licia Cossetto rilascia innumerevoli dichiarazioni al riguardo, contraddicendo le sue stesse dichiarazioni del 1948. La ragione è presto detta: dilatare a dismisura il tempo che intercorre tra l’arresto e la morte di Norma Cossetto crea un lasso temporale colmabile con ogni tipo di eventi, crudeltà e nefandezze, che infatti iniziano a circolare incontrollabilmente.
Nel necrologio di Norma Cossetto pubblicato sul Piccolo di Trieste il 16 dicembre 1943 (ricordiamolo ancora una volta: all’epoca dei fatti alle dirette dipendenze del ministero degli Esteri di Berlino e succube della medesima propaganda) si legge che fu “vittima della barbarie balcano-comunista”. Ma attenersi ai soli giornali sarebbe riduttivo, avendo lo stesso Karl Lapper – capo del dipartimento di propaganda dell’Ozak alle dirette dipendenze di Goebbels – asserito in un rapporto al suo superiore di lavorare molto con la “propaganda orale”, che si traduce nel “sentire che cosa agita la popolazione (…) per dare la controparola”.
Nel concreto questo si traduce in una proliferazione di versioni sempre più raccapriccianti e dettagliate sulla morte di Norma Cossetto. Una testimone, mai identificata, avrebbe assistito alla violenza sessuale commessa da 17 partigiani. L’articolo del Piccolo del 16 dicembre parla di pugnalate ai seni e pezzi di legno nella vagina. Armando Harzarich, maresciallo dei vigili del fuoco presente all’esumazione degli infoibati nel 1943, darà due versioni contraddittorie sullo stato del cadavere di Norma Cossetto all’atto del rinvenimento: una concordante con l’articolo del Piccolo, l’altra riferendo di un corpo senza segni di soprusi.
Panchina dedicata a Norma Cossetto presso il quartiere Giuliano-Dalmata di Roma (Meridiano 13/Gianni Galleri)
Dagli anni Ottanta in poi iniziano a spiccare nuovi sedicenti testimoni della riesumazione dei cadaveri dalla foiba di Norma Cossetto, mai nominati da Harzarich stesso. E con i testimoni fioccano nuove versioni, anche contraddittorie l’una con l’altra, e nuovi particolari sempre più morbosi, che evitiamo di riportare. Con un unico punto in comune: la mancanza di uno straccio di prova a loro sostegno.
Contronarrazioni e revisionismo
Gli anni Ottanta cedono il passo ai fatidici anni Novanta. Il blocco sovietico si sbriciola, la Jugoslavia implode, i partiti politici tradizionali in Italia entrano in una profonda e definitiva crisi.
Si apre così lo spazio politico per rimettere in discussione ciò che si riteneva assodato e proporre comparazioni impensabili solo fino al decennio precedente. Del confine orientale si inizia a raccontare una contronarrazione autoassolutoria nei confronti degli occupanti italiani, che li vede vittime di soprusi equiparabili alla Shoah da parte di orde di barbari slavo-comunisti equiparabili ai nazisti. Le foibe vengono completamente decontestualizzate e da azione di guerra parte di un conflitto di liberazione nazionale dal nazifascismo vengono presentate come genocidio slavo nei confronti della popolazione italiana in quanto tale.
Il caso di Norma Cossetto funge da grimaldello perfetto per la “olocaustizzazione” del confine orientale. Il martellamento mediatico su questo tasto, complice lo sdoganamento di un partito neofascista in una compagine di governo (Berlusconi II, 2001-2005), creano le condizioniperfette per l’istituzionalizzazione di un Giorno del ricordo che commemori i massacri delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata, esatto contraltare al Giorno della memoria che ricorda invece le vittime dell’Olocausto.
Le due commemorazioni, vicine temporalmente oltre che semanticamente, suggeriscono l’idea perniciosa che le vittime delle foibe e le vittime dell’Olocausto siano equiparabili. Ma non lo sono e non lo saranno mai, sia per evidenti ragioni numeriche (nonostante onorevoli senatori del calibro di Gasparri abbiano dichiarato in passato che milioni (sic!) di italiani siano stati infoibati, le cifre più ragionevoli si fermano a qualche migliaio), sia perché gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale furono sterminati nel contesto di un folle disegno genocida, mentre gli italiani in Istria e Dalmazia vennero passati per le armi in quanto collusi con in fascismo.
Ad ogni modo, dal 30 marzo del 2004 la Repubblica italiana commemora il Giorno del ricordo. Ad un anno di distanza, il 9 dicembre del 2005 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì – su proposta di un deputato missino – a Norma Cossetto la medaglia d’oro al merito civile. Riportiamo di seguito la motivazione per intero:
Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio.
Il processo non si arrestò certo con il raggiungimento di questo traguardo, come testimoniano le numerose pubblicazioni che continuarono a fiorire sul tema. Tra queste spicca per ingegno Foibe Rosse del già citato Sessi, testo del 2007 che al suo interno contiene un capitolo scritto a mo’ di diario (ovviamente mai esistito) scritto da Norma Cossetto in persona. Norma Cossetto come Anna Frank, insomma.
Fu così che nel 2011 presso palazzo Bo a Padova venne affissa una targa in onore dei caduti, con particolare riferimento a Norma Cossetto, che recita come segue:
Per ricordare gli italiani e le italiane vittime di inumana ferocia in Istria e Dalmazia negli anni eroici e tragici della guerra di liberazione e delle pulizie etniche, colpevoli solo di aver difeso e pagato con la morte o l’esilio l’italianità della terra natia. L’Università di Padova dedica a loro, e con loro a Norma Cossetto, studentessa dell’ateneo la medaglia d’oro al merito civile a onore del loro sacrificio per la patria e la libertà.
Il ricorso al termine “pulizia etnica”, coniato negli anni Novanta per indicare la sistematica politica di terrore esercitata nei confronti delle minoranze durante le guerre di dissoluzione della Jugoslavia al fine di creare un territorio omogeneo dal punto di vista etnico, risulta quantomeno fuorviante quando utilizzato per descrivere il confine orientale negli anni Quaranta. La “colpa” delle vittime delle foibe non era quella di essere italiani, ma di essere stati o di essere stati ritenuti sostenitori del regime fascista.
Come è evidente questo discorso propagandistico di vittimizzazione è oramai divenuto dominante, sancito e legittimato ai più alti livelli della Repubblica con leggi e interventi dei suoi rappresentanti.
Celebre in questo senso il discorso di Giorgio Napolitano del 10 febbraio del 2007, che fece giustamente adirare l’allora presidente croato Stjepan Mesić. L’allora presidente della Repubblica, dopo aver parlato di “disegno di sradicamento della presenza italiana” e di “pulizia etnica”, dopo aver accostato esplicitamente Shoah e foibe, si spinge a parlare di una “Italia tornata libera e indipendente ma umiliata e mutilata nella sua regione orientale (sic!)”. La propaganda del primo dopoguerra sulla “vittoria mutilata” e sull’umiliazione dell’Italia alle trattative di pace sappiamo bene dove portarono e con quali intenti espansionistici.
Monumento ai caduti giuliani e dalmati presso il quartiere Giuliano-Dalmata di Roma (Meridiano 13/Gianni Galleri)
Consentitemi un paragone con i nostri alleati degli anni Quaranta: quanto scalpore provocherebbe nel mondo se i tedeschi istituissero un giorno del ricordo per rimembrare i cittadini del Reich caduti durante la Liberazione dell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale? E per ricordare i pur numerosissimi civili etnicamente tedeschi costretti alla fuga nell’immediato dopoguerra da Polonia, Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia e via dicendo?
Sul grande schermo si ricorda infine la miniserie Il cuore nel pozzo del 2005 e finalmente il nostro Rosso Istria del 2018, che per il momento chiude (miseramente) la rappresentazione del caso di Norma Cossetto sul grande schermo e sancisce il trionfo di una nuova narrazione nazionale sul tema, ormai divenuta mainstream. Senza offrire un gran servizio né alla memoria della diretta interessata, né a quella del paese.
Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.