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“Se il mondo fosse un posto perfetto, Edin Salaharević magari avrebbe potuto giocare in NBA e nei più grandi club europei. Perché, considerando il potenziale che aveva, non ci sarebbe stato niente di strano”. Con queste parole (più o meno) il giornalista Saša Čobanov ha raccontato sulle pagine di index.hr la storia di quello che sarebbe potuto diventare il più grande cestista bosniaco della storia. Purtroppo, come lo stesso cronista ricorda, il mondo non è affatto un luogo ideale e oggi possiamo solo darci da fare affinché il ricordo di Edin Salaharević non si perda per sempre.
Nella Casa dello sport di Tuzla ci sono le foto di tutte le squadre sportive della città. Il primato, in fatto di numerosità, se lo giocano la squadra di calcio e quella di basket. Ci sono le immagini dei trionfi, ma anche quelle delle squadre più rappresentative che, pur non avendo vinto, hanno infiammato i tifosi cittadini. Poi c’è una foto che riporta una data importante: 1992. Le facce impresse nello scatto sono tutte di ragazzi molto giovani. Quando gli occhi dei miei accompagnatori si posano su di essa, qualcuno indica il numero 6, dice il suo nome: Edin Salaharević. Tutti sanno chi è, tutti abbassano lo sguardo e scuotono la testa. De André l’avrebbe definita: “una storia sbagliata”.
Edin Salaharević era nato il 15 maggio 1973 a Zvornik, ma era cresciuto a Vlasenica, nella Bosnia orientale, a 60 chilometri da Srebrenica. Nel 1992, a 19 anni, era già alto 2 metri e 5 ed era un’ala-centro splendida, fortissima, con un radioso futuro davanti a sé.
Nel marzo 1992, con grande sorpresa, la squadra juniores dello Sloboda-Dita Tuzla si laureò campione della Jugoslavia. La fase finale del campionato si disputò senza le squadre croate e slovene, ma le avversarie di certo non mancavano: due nomi su tutti, Stella Rossa e Partizan. La compagine bosniaca però si liberò degli scomodi avversari già nel girone eliminatorio, superandole a Zrenjanin, in Vojvodina. La fase finale, disputata in casa, mise lo Sloboda di fronte alla Lokomotiva Mostar e poi in finale contro la squadra di Užice. Fu un trionfo.
La formazione rosso-nera aveva dei grandissimi prospetti. Edin Delić, Vladimir Vukičević, Asim Pars, che al tempo si chiamava ancora Paščanović (che vincerà l’argento europeo nel 2001 con la nazionale turca e si toglierà purtroppo la vita nel 2024) e il play Damir Mulaomerović, che diventerà un campione riconosciuto, passando anche da Bologna sponda Fortitudo, e sceglierà di rappresentare la Croazia.
La formazione juniores dello Sloboda Tuzla, Edin è il numero 6 (Meridiano 13/Gianni Galleri)
Il giocatore però forse più splendente fra quei diamanti grezzi era proprio Edin Salaharević. “Mula” e “Edo” furono anche nominati migliori giocatori della finale: il play segnò 31 punti, mentre il centro realizzò una doppia doppia con 22 punti e 14 rimbalzi. Questo valse ad entrambi la convocazione per la rappresentativa giovanile jugoslava a Belgrado, in preparazione del torneo di qualificazione per il Campionato Europeo in Polonia.
La situazione in Bosnia
Mentre un ragazzo di 19 anni realizzava il suo sogno vincendo il campionato nazionale juniores e venendo convocato con la rappresentativa del suo paese, i paramilitari cetnici compivano uno dei primi e più importanti passi verso la guerra in Bosnia: il massacro di Bijeljina. La città nel nord-est del paese veniva occupata secondo uno schema che di lì a breve sarebbe diventato consolidato in tutta la regione orientale, al confine con la Serbia.
In primo luogo, le forze paramilitari serbe di Bosnia, spesso con l’assistenza della JNA (Jugoslovenska narodna armija, Esercito popolare jugoslavo), prendono il controllo dell’area. In molti casi, ai residenti serbi viene intimato di lasciare l’area prima dell’inizio della violenza. Le case dei residenti non serbi vengono prese di mira e distrutte, così come i monumenti culturali e religiosi, in particolare chiese e moschee.
In secondo luogo, l’area cade sotto il controllo di forze paramilitari che terrorizzano i residenti non serbi con omicidi casuali, stupri e saccheggi.
In terzo luogo, l’area sequestrata è amministrata dalle autorità serbe locali, spesso in collaborazione con gruppi paramilitari. Durante questa fase, i residenti non serbi vengono arrestati, picchiati e talvolta trasferiti in campi di prigionia dove si sono verificati ulteriori abusi, tra cui uccisioni di massa. I residenti non serbi vengono spesso licenziati dai loro lavori e le loro proprietà confiscate. Molti sono stati costretti a firmare documenti di rinuncia al diritto di proprietà sulle proprie abitazioni prima di essere deportati in altre aree del paese.
Quando le truppe di Arkan, coinvolto direttamente nella faccenda, lasciarono Bijeljina, c’erano quasi cento vittime che giacevano a terra, lasciate a decomporsi per strada, come monito per tutti e come simbolo di impunità. Era l’inizio di aprile. Da pochi giorni Edin Salaharević era tornato nella sua città, per trascorrere con la famiglia i festeggiamenti dell’Eid al-Fitr, ovvero la festa che segna la fine del mese del Ramadan.
Quello che successe a Vlasenica
In quel momento solo in pochi stavano capendo quanto stava per accadere. Sicuramente non due ragazzi di 19 anni all’apice della felicità per i trionfi sportivi. Eppure Mulaomerović in alcune interviste ha raccontato di aver avuto pessimi presentimenti e di aver implorato l’amico di non andare a casa. Edin volle comunque partire. In seguito i due amici e compagni di squadra si sentirono al telefono, quando ancora le linee funzionavano. In queste occasioni Edo tranquillizzò Mula: sarebbe andato tutto bene.
I cetnici assediarono Vlasenica e la isolarono dal resto della regione, chiudendo le strade verso Zvornik e Tuzla, e prendendo di fatto in consegna l’amministrazione della città. La famiglia Salaharević venne messa – come altre – agli arresti domiciliari. Provarono ad andarsene, ma ogni volta vennero rispediti indietro. Dopo un primo momento si comprese chi era il destinatario di quell’accanimento: Edin. Predrag “Car” Bastah, che aveva preso il comando operativo della zona, disse chiaramente alla famiglia che loro avrebbero potuto lasciare Vlasenica senza nessun problema, ma il ragazzo non poteva assolutamente andarsene.
“Lui ha giocato a basket”.
Tutti decisero di restare, almeno per il momento.
L’assedio si concluse il 21 aprile, con l’ingresso in città delle forze ultranazionaliste provenienti anche dalla Serbia. Quando la Jna, l’esercito jugoslavo, lasciò Vlasenica, la situazione si fece ancora più pesante. La famiglia Salaharević era costretta a rimanere a casa, sottoposta a molestie e intimidazioni quotidiane, e a Edin non venne permesso neanche di raggiungere il ritiro della nazionale jugoslava. Proprio quella stessa Jugoslavia che gli assedianti dicevano di proteggere, mentendo chiaramente.
Alla situazione di Edin si interessarono anche Radomir Šaper, leggenda del basket jugoslavo, e Branislav Rajačić, coordinatore capo di tutte le squadre giovanili della Jugoslavia. Ne chiesero a gran voce il rilascio, ma non ottennero nulla. Branislav Drakulić, al tempo presidente del Tribunale di Vlasenica, rispose indignato alle richieste provenienti da Belgrado: “Che razza di serbi siete se vi date da fare così tanto per un solo musulmano?”. Anche la Stella Rossa, il Partizan, il Vojvodina, oltre naturalmente allo Sloboda Tuzla, provarono a tirare fuori Edo. Non ci fu niente da fare.
Racconta il fratello Nedim che si stava sempre più delineando una situazione per la quale Edin era la vittima prescelta della cattiveria, della frustrazione e dell’invidia. Rappresentava il successo, ce l’aveva fatta e questo non poteva essere accettato. I comportamenti più efferati arrivarono proprio da quelli che un tempo erano i suoi amici d’infanzia, quelli a cui regalava i biglietti per le partite. Un foglio di carta fu attaccato sulla loro casa con una scritta che designava quella famiglia come “speciale”, sotto c’erano i loro nomi e quello di Edin era in grassetto.
A settembre la situazione precipitò. I cetnici decisero che gli arresti domiciliari non erano più sufficienti e rastrellarono Vlasenica casa per casa in cerca di musulmani. Metà li uccisero subito, metà li portarono in un campo di concentramento istituito nelle vicinanze. Nella notte fra il 12 e il 13, agli ordini di Bastah, alcuni uomini entrarono in casa Salaharević, mentre la famiglia si era rifugiata in cortile per nascondersi. Scappare nella notte o consegnarsi? Conoscevano chi li stava cercando. Decisero per la seconda opzione, perché sapevano di non aver fatto niente.
Il fratello minore e la madre Hatidža furono sfollati a Kladanj, mentre gli uomini furono portati via, verso il campo di concentramento di Sušica. Nedim fu salvato da morte certa da un membro della Guardia Volontaria Serba che fermò Bastah dicendo: “Lasciatelo andare, è ancora un bambino”. Il padre Muhamad chiese al figlio piccolo di prendersi cura della madre e di ascoltarla, mentre Edin rassicurò il fratellino che tutto si sarebbe risolto nel giro di qualche giorno. Se ne andò indossando la tuta del KK Sloboda Tuzla, spinto dai calci dei fucili di quelli che erano stati suoi amici.
Quando trovarono le ossa, un familiare fu chiamato per procedere con l’identificazione, ovviamente toccò a Nedim. Il medico che eseguì l’autopsia chiese al fratello se volesse ascoltare il referto. Gli rispose di no, che non voleva sentire come era stato ucciso suo fratello o come lo avevano torturato. Più tardi, il medico gli disse che rifiutando, avevo preso la decisione giusta. Gli avevano fatto di tutto.
“Forse quello che dirò adesso può sembrare duro, ma fortunato è stato colui che in quei giorni a Vlasenica è stato ucciso da un proiettile”, ha dichiarato Nedim a Index. Non si sa esattamente chi abbia sferrato il colpo mortale, né quando. Si indica come data del decesso il 13 settembre 1992, l’ultimo giorno in cui Edin fu visto vivo.
La tomba di Edin a Vlasenica (Meridiano 13/Gianni Galleri)
Per la sua morte e quella di altre centinaia di cittadini di Vlasenica sono stati condannati Dragan Nikolić, Predrag Bastah e Goran Višković. Miroslav Mićo Kraljević, allora signore assoluto di Vlasenica, ancora sotto processo per i crimini commessi, è sindaco della città e membro del partito politico di Milorad Dodik. I processi sono difficili perché ci sono enormi pressioni sui testimoni. Si stima che in città furono uccisi circa 2.500 musulmani. I resti di Edin Salaharević furono ritrovati solo nel 2009, sparsi in diverse fosse comuni. Quelli del padre non sono ancora stati ritrovati. Nel 2019 anche la signora Hatidža ha lasciato questo mondo.
Il film su Edin
Nel 2017 l’attore bosniaco Emir Hadžihafizbegović ha girato un film per ricordare Edin Salaharević, dal titolo Kuće koje plaču, “Case che piangono”. In un’intervista a zasrebrenicu.ba, ha dichiarato:
Lavorando a questo film, due sentimenti si mescolano in me senza sosta: da un lato, la tristezza per la morte di un ragazzo così bravo e atleta di successo, e dall’altro, l’onore di aver avuto […] il privilegio di realizzare un film come questo. Per me è importante che questa vecchia storia non finisca nell’oblio. Quando abbiamo deciso di lavorare a questo film, volevamo, oltre alla nostra catarsi personale, aiutare chi guarderà il film a essere una persona migliore e più nobile, e che l’etica, la morale e tutti quei aspetti della vita, per quanto patetici possano sembrare, siano una barriera contro qualsiasi male futuro come quello vissuto dalla famiglia Salaharević.
Durante le riprese del film il regista e la sua troupe hanno incontrato un’infinità di ostacoli, legati soprattutto alla reticenza e all’omertà delle persone di Vlasenica. Chi sapeva, chi aveva visto, ma anche chi semplicemente conosceva la famiglia Salaharević si rifiutava di parlare. Inoltre un altro punto davvero difficile da superare per il regista è stata la quasi totale mancanza di immagini di Edin da vivo. Stava per rinunciare quando, durante un incontro con Damir Mulaomerović, questi fu chiamato dal suo collega Predrag Drobnjak che gli diede il numero di Miroslav Radošević, altro cestista con una buona carriera alle spalle. Drobnjak disse che forse aveva del materiale dell’ultima partita di Edin, perché giocava nella squadra avversaria.
Cinque giorni dopo, quando ricevetti il DVD della partita all’arena “Mejdan” di Tuzla, la guardai con più entusiasmo di quando guardai in diretta la finale di basket alle Olimpiadi in Brasile tra Stati Uniti e Serbia.
Il ritorno a Vlasenica
Nel 2023, dopo trent’anni, Nedim ha pensato che potesse essere giunto il tempo di ritornare a Vlasenica e di ristrutturare la casa dove aveva passato i primi anni della sua vita. Tuttavia qualcuno deve aver notato del movimento e ha voluto mandare un messaggio all’ultimo rimasto della famiglia Salaharević. Nel cortile davanti casa Nedim ha ritrovato un pallone da basket tagliato a metà. Uno schifoso gesto intimidatorio, a dimostrazione che dopo tre decenni niente è cambiato nella città di Vlasenica.
Era un pallone nuovo, di vero cuoio. Per forare un pallone del genere, bisogna essere forti o avere un buon coltello. Non so chi l’abbia fatto. Se sia stato fatto da una persona sola o da più persone. Non importa. Il messaggio è chiaro. Non mi vogliono qui, non vogliono vedermi, non vogliono che venga a Vlasenica.
Nedim ha più volte testimoniato nei processi contro gli esecutori materiali degli omicidi in città durante il periodo bellico.
La pulizia etnica nella Bosnia orientale
Nel luglio del 1995 a Srebrenica avvenne quello che per certi versi può considerarsi l’atto conclusivo di qualcosa di mostruoso che però era iniziato diversi anni prima. La storia di Edin Salaharević ci racconta che quel tremendo epilogo non fu un atto isolato, ma fu la deliberata e volontaria scelta di distruzione di una popolazione, una pulizia etnica iniziata molto prima.
Cadde in quei mesi anche chi semplicemente provò ad opporsi al gioco delle etnie, chi provò a difendere la convivenza, indipendentemente da chi fosse. Una scure spietata sotto la quale poteva cadere chiunque, solo perché il suo nome e il suo cognome lo identificavano come un bosgnacco. Neanche il miglior talento del basket bosniaco riuscì a salvarsi e per questo oggi, a più di trent’anni da quei giorni, è importante tenerne vivo il ricordo.
Autore dei libri “Questo è il mio posto” e “Curva Est” - di cui anima l’omonima pagina Facebook - (Urbone Publishing), "Predrag difende Sarajevo" (Garrincha edizioni) e "Balkan Football Club" (Bottega Errante Edizioni), e dei podcast “Lokomotiv” e “Conference Call”. Fra le sue collaborazioni passate e presenti SportPeople, L’Ultimo Uomo, QuattroTreTre e Linea Mediana. Da settembre 2019 a dicembre 2021 ha coordinato la redazione sportiva di East Journal.