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Donne nelle discipline STEM? Ancora troppo poche

di Sara Urbani*

C’è chi lo paragona a un “tubo che perde” (in inglese leaky pipeline) e l’immagine è purtroppo molto efficace, anche nella sua sgradevolezza: si tratta del diffuso fenomeno della scarsa presenza femminile nelle discipline STEM. Questa sigla sta per science, technology, engineering e mathematics e comprende, quindi, praticamente la totalità delle discipline tecnico-scientifiche, in cui la sottorappresentazione delle donne è un problema da molto, troppo tempo in Italia e non solo.

Si tratta di una questione che ha radici profonde e non banali da analizzare, ma nonostante negli ultimi anni siano stati fatti notevoli passi avanti verso la parità di genere in questo campo, i numeri parlano da soli. Per esempio, ci sono quelli diffusi in occasione della Giornata Internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza (istituita dall’ONU nel 2015 e che ricorre ogni 11 febbraio): ancora oggi nel mondo solo il 28% di chi si laurea in ingegneria e il 40% di chi lo fa in informatica sono ragazze.

Anche se le donne sono il 33% del personale che fa ricerca, esse rappresentano soltanto il 12% dei membri delle accademie scientifiche e in settori d’avanguardia come l’intelligenza artificiale c’è solo una professionista su cinque. In generale, le ricercatrici tendono ad avere carriere più brevi e meno retribuite dei colleghi maschi, il loro lavoro è scarsamente rappresentato nelle pubblicazioni sulle riviste scientifiche di alto profilo e spesso le loro candidature vengono scartate quando c’è in ballo una promozione.

Se questo è il panorama a livello globale, quando guardiamo all’Italia la situazione è persino peggiore: nonostante la grande richiesta da parte del mondo del lavoro nelle discipline STEM, le ragazze sono solo il 30% di chi consegue una laurea in ambito tecnico-scientifico (nonostante da anni nel nostro Paese si laureino più donne che uomini) e soltanto il 20% di loro lavora poi effettivamente in questi settori. I laboratori dunque non sembrano ancora luoghi “da donne”, che continuano a essere poco presenti e a raggiungere difficilmente ruoli di potere all’interno di queste industrie o centri di ricerca.

Il divario è molto studiato e sembra essere dovuto a una serie di fattori, tra cui la persistenza di stereotipi di genere, la scarsità di modelli positivi a cui ispirarsi per le più giovani, la mancanza di sostegno e di opportunità di carriera. Dopo aver tratteggiato questo quadro a tinte fosche, torniamo ora all’immagine iniziale: il famoso tubo sgocciolante è un modo piuttosto comune di descrivere la perdita di donne nel loro percorso professionale all’interno delle discipline STEM. L’espressione descrive il problema meglio della classica metafora del “soffitto di cristallo” e si riferisce all’idea che le scienziate tendono a fuoriuscire dal percorso che porta dall’istruzione fino
alla carriera nella ricerca.

Questa perdita di potenziale umano avviene lungo diverse tappe: a iniziare dalla scelta del corso di laurea, passando dal dottorato, fino al post-doc e oltre. In particolare, gli stereotipi di genere sono ancora molto radicati nella nostra società e spesso le più giovani vengono scoraggiate a intraprendere un percorso formativo nei settori tecnico-scientifici, che sono visti come un territorio più “maschile”, e anche i pochi modelli di riferimento positivi che mostrino donne di successo nelle discipline STEM non facilitano certo loro il compito di immaginarsi in questi ruoli.

“Effetto Matilda”: la prima moglie serba di Einstein

C’è poi anche un altro elemento da considerare, ovvero il cosiddetto “effetto Matilda”: il termine descrive la tendenza piuttosto radicata di invisibilizzare i contributi scientifici delle donne. Queste, infatti, sono spesso sottorappresentate quando non del tutto ignorate nei crediti e nei
riconoscimenti per i loro apporti alla ricerca. Il fenomeno ha preso il nome da Matilda Joslyn Gage, una suffragetta statunitense che nel XIX secolo si è battuta strenuamente per i diritti delle donne. Nel 1870 aveva infatti pubblicato il saggio Woman as an Inventor in cui raccontava delle tante scoperte fatte da donne e rimaste nell’anonimato, perché sistematicamente attribuite ai colleghi maschi. L’effetto Matilda però non è un fenomeno del passato, purtroppo è ancora un grosso problema nelle discipline STEM, dove le ricercatrici non ricevono il giusto riconoscimento per il loro contributo alla scienza. L’invisibilizzazione delle donne può spesso avere un impatto negativo sulle loro opportunità di carriera e di finanziamento, oltre a minare l’autostima e la motivazione di chi la subisce.

Gli esempi di questo pernicioso fenomeno sarebbero moltissimi, ma proviamo a farne uno su tutti: Albert Einstein è forse uno degli scienziati più famosi al mondo, e lo è giustamente. Eppure, quasi mai viene ricordata nella sua brillante biografia la storia della sua prima moglie Mileva Marić (1875-1948). È stata una fisica e matematica serba, prima donna ad aver studiato al prestigioso politecnico di Zurigo, e secondo alcune ricostruzioni storiche avrebbe collaborato alla stesura dei lavori del marito sulla teoria della relatività. Ma nonostante ciò Mileva Marić è vissuta per anni nella sua ombra per poi venire quasi completamente dimenticata.

Certo, si potrebbe obiettare che la caratura scientifica di Einstein è tale da ricevere persino un premio Nobel, mentre il contributo di Marić potrebbe essere stato al massimo marginale… Allora proviamo a vedere quante donne hanno vinto la prestigiosa medaglia nella sua storia: tra il 1901 e il 2022, il premio intitolato alla memoria di Alfred Nobel è stato assegnato a una donna solo 61 volte. E soltanto una scienziata è stata premiata due volte, si tratta di Marie Curie che ha vinto il Nobel per la Fisica nel 1903 e quello per la Chimica nel 1911. Quindi, in oltre 120 anni, le vincitrici sono 60 su un totale di 615 premi assegnati a 989 persone o organizzazioni.

Questa risicata presenza delle donne nel pantheon della conoscenza purtroppo è un retaggio che viene da lontano e infatti delle 60 vincitrici, più della metà sono state premiate negli ultimi vent’anni, segno che in effetti qualcosa sta cambiando, ma la strada per raggiungere la piena parità è ancora lunga.

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Marie Curie, vittima del doppio standard

Abbiamo citato Marie Curie perché in effetti la sua è una storia davvero esemplare, poiché nonostante il successo che è riuscita a ottenere, anche lei ha dovuto superare enormi difficoltà per raggiungere i suoi obiettivi.

Nata Maria Salomea Skłodowska a Varsavia nel 1867, a 24 anni lascia la Polonia perché lì le donne non erano ammesse agli studi superiori. In Francia invece, aiutata anche economicamente dalla sorella maggiore Bronisława, si laurea in fisica e matematica alla Sorbona. Marie (come ora si fa chiamare) inizia qui a studiare il fenomeno della radioattività assieme a Pierre Curie, che poi diverrà suo marito.

E anche l’insistenza di Pierre, che contro i pregiudizi dell’accademia la considera sua pari e non una semplice assistente, la porterà al primo premio Nobel condiviso.

Nel 1906 Pierre muore in un incidente e l’università parigina offre a Marie la sua cattedra rimasta vacante: diventa così la prima donna a insegnare alla Sorbona. Pochi anni dopo vincerà il secondo Nobel nonostante vari tentativi di negarglielo: infatti, l’ostilità nei suoi confronti da parte del
mondo scientifico dell’epoca è tanto feroce quanto ingiustificata, se non per via di pregiudizi duri a morire. Marie sconta infatti sia il suo essere una donna in un mondo prettamente maschile, sia la sua provenienza, dato che viene spesso chiamata “la polacca” in senso spregiativo.

Persino la sua vita privata è scandagliata nei minimi dettagli e, dopo la morte di Pierre, la sua relazione con un collega di qualche anno più giovane viene sbattuta in prima pagina sui giornali parigini e fa scoppiare uno scandalo subito cavalcato dai suoi avversari accademici. Un tipico esempio di doppio standard in fatto di giudizio morale, se fosse successo a un uomo
sarebbe stato derubricato come notizia di poco conto.

Indubbiamente Skłodowska-Curie è diventata un’icona della scienza e un modello di riferimento per le donne che vogliano intraprendere una carriera nelle discipline STEM, non a caso Fabiola Gianotti (direttrice generale del CERN di Ginevra) ha affermato: “È stata la lettura della biografia di Marie Curie, a 17 anni, a farmi nascere la passione per la fisica”. E questo ci fa tornare all’importanza di avere degli esempi positivi da seguire, oggi magari anche con storie un po’ meno travagliate di quella di Maria/Marie; che comunque rimane ancora l’unica donna ad aver vinto due Nobel e l’unica persona ad averli ricevuti in due diverse discipline scientifiche.

Per concludere con una nota di speranza questa riflessione sul ruolo delle donne nelle discipline STEM, facciamo nostre le parole della neurobiologa Rita Levi Montalcini (vincitrice del premio Nobel per la Medicina o Fisiologia nel 1986) dedicandole in particolare alle ragazze che vogliono intraprendere una carriera scientifica: “Pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare, e non temete niente”.

*Dopo la laurea in scienze naturali e un master in comunicazione della scienza, lavora nella
redazione scientifica della casa editrice Zanichelli. Scrive anche per Odòs – libreria editrice e
per i magazine online
La ricerca e La Falla.

Immagine: Mileva Marić con il marito (Wikimedia Commons)

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