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Il film del regista spalatino Jure Pavlović narra con il giusto pathos la storia di una nazionale cestistica che si è spenta sul più bello, proprio quando avrebbe (forse) potuto piegare anche il Dream Team americano. Ma, come ci insegna la pellicola, la drammatica realtà politica, dettata da un ritorno ai nazionalismi belligeranti, è stata più incisiva anche delle imprese sportive di Kukoć, Divac, Paspalj, Rađa, Zdovc e compagni a Roma 1991
Pochi giorni fa ho avuto la fortuna di vedere il film in una sala cinematografica slovena col titolo Izgubljena ekipa (“La squadra perduta”), che narra le sorti dell’unica squadra nella storia recente ad aver ottenuto una medaglia europea d’oro senza più avere una nazione alle spalle. La pellicola non mi ha lasciato indifferente. Anzi, ritengo che si tratti di un’opera consigliata non solo a chi è, per natura, un seguace di sport – e in particolare della palla a spicchi – ma a tutti coloro che vogliono comprendere meglio le dinamiche, tutto fuorché lineari e limpide, che hanno portato al collasso della Repubblica federale della Jugoslavia.
La sua forza sta proprio nel riuscire a mettere in parallelo, in maniera puntuale e cronologica, le imprese del “dream team” jugoslavo con gli accadimenti politici del paese nel corso degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Quello che ne consegue è un vero e proprio corto circuito, che finisce per far riflettere qualsiasi spettatore – anche quello più prevenuto, verso una realtà ed una mentalità sportiva tuttora scarsamente comprese.
Nella parte iniziale della pellicola ripercorriamo sullo schermo le parole dei politici che hanno avuto presa sulle diverse etnie che per decenni hanno convissuto pacificamente nella federazione jugoslava:
Un paese che ha una gioventù sana non ha nulla da temere per il proprio futuro.
Nel proseguo scopriamo da vicino il talento del team jugoslavo U-19, che nell’agosto del 1987, a Bormio, ha conquistato il primo posto, battendo nettamente la selezione americana per 86-76. In quel momento è diventato chiaro a tutti che la Jugoslavia del basket disponeva degli atleti più promettenti al mondo.
Non a caso, qualche anno dopo la Jugoslavia si laureò campione del mondo in Argentina: era l’agosto del 1990. Dopo aver superato in semifinale l’avversario più ostico, ovvero gli USA (99-91), i giovani jugoslavi, guidati da Dražen Petrović e Toni Kukoč, in finale piegarono senza problemi l’Unione Sovietica col punteggio 92-75. Kukoč venne eletto anche MVP del torneo, mentre la squadra si rivelò essere – per citare Dino Rađa – “una macchina perfetta”.
Gli anni Ottanta
Eppure nella seconda metà degli anni Ottanta le cose in Jugoslavia già stavano cambiando rotta e quello che non era evidente ai campioni del basket, lo era, forse, agli analisti politici e agli osservatori più preparati.
Lunga vita alla Serbia! Lunga vita alla Jugoslavia! Lunga vita alla pace e alla fratellanza tra i popoli!
Nell’estate dell’89 Slobodan Milošević nel discorso del Gazimestan, terminò con queste testuali parole. Eppure, il suo show personale, davanti ad un mare di gente, era tutto incentrato sull’idea di difesa dell’identità nazionale della Serbia. Allo stesso tempo, l’indebolimento del regime comunista centrale jugoslavo diede spazio alla rinascita dei nazionalismi e alle richieste, man mano più pressanti, d’indipendenza della Slovenia e della Croazia di Franjo Tuđman.
Gli Europei di Roma 1991
Nonostante ciò, nel 1991 la nazionale maschile di basket della Jugoslavia, guidata in panchina da Dušan Ivković, si presentò ad un nuovo appuntamento, gli europei che stavolta si giocarono a Roma. Come ci narra il film, pur senza Dražen Petrović, i ragazzi jugoslavi inizialmente si affacciarono al torneo da favoriti. In avvio ebbero la meglio contro un’ostica Spagna (76-67), poi seguirono le vittorie contro la Polonia e la Bulgaria.
Guardando il film si viene a conoscenza del fatto che, poco prima della semifinale contro la Francia, il playmaker Jurij Zdovc dovette abbandonare i propri compagni a seguito di una telefonata intimidatoria ricevuta direttamente da Lubiana: se fosse sceso sul parquet con la canotta jugoslava, in Slovenia sarebbe stato considerato un traditore. Il regista Pavlović ci racconta della rassegnazione di Zdovc, in lacrime in un angolo dopo la decisione presa sul momento, con gli (ex) compagni stretti attorno a rassicurarlo:
Non ti preoccupare Jurij, giocheremo fino alla fine anche per te, come se fossi accanto a noi. Vinceremo la medaglia anche per te.
Superata la Francia (97-76) nonostante l’assenza del titolare sloveno in cabina di regia, la compagine di Ivko Dušković, rimaneggiata, e, soprattutto, a causa delle notizie ormai più che cupe sul fronte internazionale, non era più considerata come la squadra da battere. In finale, col fattore campo a favore, la più accreditata per il primo posto fu l’Italia allenata da Sandro Gamba. Ne fu cosciente anche il pubblico casalingo, che addobbò gli spalti del Palaeur col tricolore e con qualche scritta del tipo: “Jugoslavia unita, Italia campione”, dove ad una possibilità ormai remota (quella della sopravvivenza della Federazione jugoslava) fu affiancata una certezza crescente, ovvero la vittoria azzurra.
Ma la politica e lo sport sono due cose ben distinte, e, infatti, le cose, con buona pace di tutti, nella finale andarono tutte a favore del talento cestistico jugoslavo. La nazionale jugoslava, che ormai gareggiava per sé stessa e per l’onore sportivo, senza più un punto di riferimento in patria, vinse la sfida con un sonoro 88-73. L’impareggiabile Toni Kukoč fu eletto meritatamente MVP anche di questo torneo.
La parte conclusiva del film è a dir poco struggente. Le immagini dell’impresa della squadra jugoslava lasciano spazio all’analisi di come gli stessi giocatori abbiano affrontato, con lo spirito stoico degno dei migliori campioni, i momenti prima di scendere in campo per la finale, ma anche le ore a seguito del successo conquistato meritatamente e in modo netto sul parquet. Anziché lasciare spazio all’euforia che sarebbe stata altrimenti la conseguenza naturale per l’oro conquistato, i ragazzi, avevano per lo più i pensieri rivolti al ritorno nelle proprie città e a cosa sarebbe potuto accadere al ritorno. Come ci raccontano i protagonisti nelle riprese davanti alla telecamera, alcuni di loro non potevano nemmeno escludere una chiamata alle armi.
Alcuni elementi da sottolineare
Nel finale del film emergono almeno un paio di elementi da sottolineare:
la pellicola coglie in maniera eccellente l’ideologia, già ben rodata, con cui in patria è stata seguita l’impresa di Kukoč e compagni: si può osservare ciò dai ritagli di giornale dell’epoca, che descrivevano l’oro della nazionale jugoslava come un “titolo macchiato di sangue”;
nelle scene conclusive viene ben delineato l’aspetto umano dei protagonisti e di come abbiano vissuto quell’avventura sportiva nonché il ritorno a casa: “pensavamo che conquistando l’oro avremmo potuto dare un buon segnale al nostro Paese. Eravamo naive”, racconta Vlade Divac davanti alle telecamere. Infatti, il rientro a casa fu un ritorno amaro alla realtà: ad attenderli non c’erano folle di tifosi esultanti, bensì qualche sparuto giornalista a raccogliere qualche dichiarazione al volo prima di voltare le spalle e andarsene velocemente.
Ancora alcune considerazioni conclusive personali, che non sono politiche, bensì prettamente sportive:
prima considerazione, non sapremo mai se la squadra che ha alzato il titolo europeo a Roma nel 1991 avrebbe potuto piegare pure il Dream Team Usa a Barcellona nel 1992;
seconda considerazione, Jure Zdovc ha ricevuto la medaglia d’oro del torneo europeo 1991 per mano dei suoi ex compagni di nazionale nel 2005, in occasione della sua partita d’addio, disputata a Lubiana. La promessa pronunciata dagli altri ragazzi a Roma è stata così fedelmente mantenuta;
ultima considerazione, per quanto soggettiva: pensare di poter mai più assistere ad una squadra maschile europea di basket così genuina, intelligente e ben rodata come lo era quella jugoslava (“una macchina perfetta”, per ritornare alla definizione di Rađa) suona, oggi, come una speranza a dir poco utopica.
Nato a Trieste, dopo gli studi conseguiti all’Università dell’Essex e all’Università di Cambridge, è stato cultore in Economia politica all’Università di Trieste. È stato co-redattore della rivista online di economia “WEA Commentaries” sino alla sua ultima uscita. Si interessa di economia, sociologia e nel tempo libero ha seguito regolarmente il basket europeo ed in particolare quello dell’ex-Jugoslavia nel corso degli ultimi anni. Ha tradotto per vari enti ed istituzioni atti e testi dallo sloveno all’italiano e dall’italiano allo sloveno.