Nella cornice del festival Pordenonelegge abbiamo intervistato lo scrittore russo Boris Akunin (pseudonimo di Grigorij Čhartišvili). Autore di successo, in particolare di romanzi gialli di ambientazione storica, è noto per le posizioni politiche apertamente contrarie al regime putiniano, motivo per cui si trova all’estero dal 2014. Lo scorso anno è stato inserito nell’elenco degli “agenti stranieri” e nel luglio del 2025 è stato condannato in contumacia a 14 anni. Oltre che scrittore, Boris Akunin è anche traduttore di letteratura giapponese, inglese e americana.
Boris Akunin, lei è molto noto per i suoi gialli ambientati nel passato. In particolare, la serie di romanzi che vede come protagonista Erast Fandorin ha riscosso un enorme successo in Russia e all’estero. Dopodiché si è dedicato a un meticoloso studio di ambito storico, risultato nel suo lavoro intitolato Istorija rossijskogo gosudarstva (Storia dello Stato russo). Ora invece ha pubblicato questo romanzo, L’avvocato del diavolo, che risulta essere di tutt’altro genere. Come ha sviluppato l’idea per questo libro?
La mia vita, come quella di molti ucraini e russi, è cambiata drasticamente nel 2022. È come se ci fossimo risvegliati in un altro mondo, in un mondo tragico. Questo romanzo è stato per me come un riflesso nervoso causato da questa nuova realtà. È un tipo di scrittura molto inusuale per me.
Uno scrittore deve sempre guardare avanti, verso il futuro. Gli scrittori non sono giornalisti. Io allora riflettevo su cosa sarà della Russia quando terminerà questa guerra, chiedendomi se ci sarà la fine della dittatura e mi sono risposto che no, non è sufficiente la fine della guerra.
La Russia è un paese che tende ad assumere costantemente la forma di un impero e la mia più grande paura è che questo possa succedere ora di nuovo. Non sono particolarmente intimorito da Putin, perché i Putin vanno e vengono, il tempo di questo Putin un giorno finirà. Ma non c’è garanzia che questa minaccia non si ponga nuovamente di fronte al mondo. È questo il tema del libro.
Nella storia della letteratura russa, come sappiamo, il rapporto tra il potere politico e gli scrittori è sempre stato quantomeno conflittuale, per usare un eufemismo. Mi pare di capire che il suo romanzo si inserisce di diritto in questa tradizione storica e letteraria. Dopotutto, Lei stesso come persona, come autore si inserisce perfettamente in questa tradizione. È qualcosa che cambierà mai?
È un’ottima domanda. È vero che sono sempre esistite due Russie, come fossero un’aquila bicefala con una testa rivolta all’impero, alla dittatura, e l’altra rivolta alla libertà, alla dignità umana. La prima testa è rappresentata da chi sostiene l’ideologia imperiale; sono persone che sono cambiate di generazione in generazione, hanno assunto vari nomi, che si trattasse di impero zarista o di impero sovietico, ma la sostanza non cambia da un punto di vista ideologico. L’altra testa è invece rappresentata dagli intellettuali, dagli scrittori, sempre in opposizione a chi ho appena descritto.
Quando ho iniziato a scrivere romanzi, alla fine degli anni Novanta, pensavamo che tutto questo fosse ormai superato, che fosse finito, pensavamo di trovarci davanti alla “fine della storia”, per riprendere Fukuyama, e che avremmo vissuto da lì in poi per sempre felici e contenti. Io volevo diventare uno scrittore di letteratura d’intrattenimento, volevo far divertire le persone, i miei lettori e divertirmi io stesso. Volevo essere uno scrittore veramente non russo.
E ora 25 anni dopo, cosa che mi fa un po’ sorridere, mi ritrovo nel ruolo tradizionale dello scrittore dissidente russo che combatte la dittatura, che scrive con serietà di politica. E questo perché non ci sono alternative.
Se sei uno scrittore, devi scrivere quello che pensi, devi essere libero. Perché uno scrittore che non è libero è una contraddizione in termini, un paradosso, non è più uno scrittore. Mi spiace molto per i miei colleghi che sono rimasti in Russia e che ora devono tacere, stare zitti o, ancora peggio, autocensurarsi, il che è terribile per uno scrittore.
Oppure recuperare una sorta di linguaggio esopico, giocare con le allegorie…
Certo, si possono aggirare gli ostacoli e si può lasciar intendere. Io sono cresciuto nell’Unione Sovietica, ho visto molte di queste cose: c’erano scrittori o registi che amavano la libertà e che lasciavano degli indizi per il pubblico, che a sua volta faceva capire di aver capito. Io odiavo tutto questo, non lo potevo sopportare.
Io appartengo alla fortunata generazione di russi che hanno vissuto in una società libera per vent’anni. Una volta che hai vissuto in una società libera non puoi tornare indietro. Io non voglio tornare a quella situazione e per questo sono emigrato nel 2014. Allora ho capito che la porta del possibile si era chiusa.
Dopo l’annessione della Crimea ho compreso con una certezza assoluta che quella era la fine della Russia democratica, che Putin aveva scelto la strada della dittatura a vita, che la Russia stava prendendo la strada della Corea del Nord. Non è qualcosa che accadrà immediatamente, ma accadrà. E io non voglio assistere a tutto ciò sentendomi impotente.
C’è da dire che non me ne sono andato subito dopo l’annessione della Crimea, ho atteso circa sei mesi aspettandomi di vedere molti russi ribellarsi a tutto ciò e, invece, ho visto che stava accadendo il contrario, ossia che l’85-87% dei russi erano contenti dell’annessione della Crimea. Allora ho pensato: “ma che diavolo! Alla maggioranza piace, che vivano senza di me, io non ho intenzione di rimanere qui”.
Me ne sono andato principalmente a causa dell’assenza di una reazione da parte dei miei concittadini.
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Le pongo una domanda se vogliamo classica per la storia della letteratura russa: può uno scrittore russo vivere fuori dal proprio paese, dalla propria patria [a chiederselo, retoricamente, era Michail Bulgakov al telefono con Stalin]?
Beh, dipende dallo scrittore. Per me, se parliamo di “rodina”, di patria, la mia patria è la letteratura russa, non potrei mai lasciarla, mi ci sento a casa, vivo in essa. Perciò non occorre che io mi trovi fisicamente in Russia. Anzi, non voglio proprio trovarmi fisicamente in Russia, perché sono disgustato da quello che vi sta accadendo. La Russia è l’ultimo paese al mondo oggi dove vorrei andare.
Oggigiorno, poi, noi scrittori viviamo in un mondo virtuale e io non ho problemi a raggiungere i miei lettori da nessuna parte. Se scrivo un libro nuovo, chi vive in Russia, certo, non può acquistarlo, ma questo non a causa di Putin, quanto a causa dell’Occidente che ha bloccato tutte le carte di credito russe, cosa che ha aiutato enormemente Putin, dato che questo tipo di sanzioni hanno chiuso il paese.
In ogni caso, io pubblico i miei libri gratis perché i russi li leggano e so che c’è chi tra i russi che vivono all’estero compra i miei libri e li porta in dono a chi vive in Russia. Dunque non è un problema. Io esisto nella nuvola della letteratura russa e nessuno può cacciarmi da lì, nemmeno Putin.
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L’avvocato del diavolo, Boris Akunin, traduzione di Erin Beretta, Francesco De Nigris e Mariangela Ferosi, Mondadori, 2025