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A Srebrenica non è successo nulla

Srebrenica. Una parola che ai più non dice nulla, ad altri evoca qualche lontano ricordo, per altri ancora è una ferita mai ricucita. In fondo, a chi importa di una piccola cittadina vicino al confine tra Bosnia ed Erzegovina e Serbia, al centro di quella che una volta era Jugoslavia e che ora, agli occhi di noi europei, appare come un non luogo in cui nulla accade? Ma Srebrenica fa parte a pieno titolo della Storia europea, delle sue pagine più nere e, forse per questo, volutamente dimenticate. Di Srebrenica e del genocidio compiuto dalle truppe serbo-bosniache nel luglio 1995 (8.372 vittime) non si parla mai, se non in occasione dell’anniversario.

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Non lo si fa certo a scuola, dove le poche ore dedicate alla storia difficilmente permettono di affrontare adeguatamente quel periodo storico. Non lo si fa nemmeno quando si parla di riarmo, della necessità di difendere il suolo europeo da più o meno ipotetiche minacce esterne. Ed ecco allora che il ricordo di quei giorni è tenuto vivo quasi esclusivamente da chi, a qualsiasi titolo, è legato allo spazio jugoslavo.

Srebrenica come eterno presente

In quegli anni, i serbo-bosniaci descrivevano i musulmani come un “altro” irriducibile, una presenza da eliminare per salvare sé stessi, una minaccia non solo potenziale ma attuale e concreta. Oggetto della violenza furono gli “altri”, non i nostri. Anzi, e qui il secondo pilastro dell’oblio su Srebrenica, i nostri si resero in qualche modo complici di quella violenza, girandosi dall’altra parte. Politicamente e materialmente.

Interno della fabbrica, accanto alla base Onu gestita dalle truppe olandesi, dove avvennero numerose violenze. Oggi, sede di un’esposizione permanente (Meridiano 13/Gianni Galleri)

Ma cosa successe a Srebrenica nel luglio 1995? Perché l’uccisione deliberata e pianificata di 8.372 uomini è stata rimossa dalla memoria europea? Per una volta, la risposta è forse più semplice di quanto si immagini, nonostante giochi di potere ed equilibri geopolitici sempre presenti. A Srebrenica a essere deportati, violentati, torturati e uccisi furono 8.372 musulmani in quanto tali. Persone considerate come una minaccia alla “purezza” della comunità serba, non solo sul piano etnico, ma anche su quello religioso.

Meglio allora fare finta di niente, sorvolare sulle nostre colpe, pensare che quel genocidio sia stato compiuto da gente pazza, da esseri disumani e non invece da uomini guidati da una lucida follia, da concezioni del mondo e della storia che in Europa trovano ancora oggi, ancor più oggi, cittadinanza a livello sociale e istituzionale.

Non è quindi un caso che, in occasione del trentesimo anniversario che si celebra l’11 luglio, l’Unione Europea sarà presente alla commemorazione con il capo della delegazione Johann Sattler, il Presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa, mentre la presidente del Parlamento, Roberta Metsola, si limiterà a una dichiarazione in aula. Nessun grande leader nazionale presente. Troppo impegnati a lucidare le armi per nuovi conflitti, nuovi massacri.

Ascolta il podcast di Srebrenica. Il genocidio dimenticato

Ipocrisia e doppi standard

L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze…

Così recita l’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea firmato a Maastricht nel 1992. Sin dalle sue origini, l’Europa ci ha dimostrato come i valori tanto sbandierati siano stati utilizzati in maniera strumentale per creare una separazione tra ciò che sta al di qua e ciò che sta al di là di una linea, che ciò che è concesso ai cittadini europei non vale per chi si trova appena un passo oltre i confini.

Basti pensare alla libertà di movimento negata ai migranti in viaggio verso l’Europa. E anche per i cittadini di Srebrenica, alla cui difesa dovevano pensare i soldati olandesi dell’Onu, il rispetto della dignità umana era tutto sommato derogabile. Si trovavano fuori dal nostro recinto, professavano un’altra religione.

Murale che recita: Che le lacrime di una madre siano una preghiera affinché Srebrenica non accada mai più (Meridiano 13/Gianni Galleri)

La vicenda di Srebrenica avrebbe dovuto impegnare l’Europa affinché i suoi valori tanto sbandierati non fossero solo l’ennesimo artefizio retorico, utile ad autocelebrare una supposta superiorità morale rispetto al resto del mondo. Si potrebbe obiettare che l’Unione Europea del 1995 era ancora una creazione incompleta, divisa tra ambizioni egemoniche dei paesi più importanti, incapace di esprimere una chiara e unica politica estera.

Trent’anni dopo il quadro è però rimasto immutato, se non addirittura peggiorato. Ed ecco quindi che i doppi standard persistono, diventando regola e non più eccezione: si accolgono alcuni profughi, quelli bianchi e cristiani provenienti dall’Ucraina, e si respingono altri, quelli più scuri di pelle e musulmani; si condannano alcune violenze, come quella russa, e si tace miseramente su altre, come quella israeliana. Srebrenica non è quindi solo un ricordo sbiadito, al limite della rimozione. Srebrenica resta una ferita aperta, che continua a parlare al presente: è il simbolo di un’Europa che predica valori universali, ma li applica in modo selettivo.

Il passato che ritorna

E allora se ricordare è fondamentale, analizzare il presente imparando a leggere il passato lo è ancor di più. La retorica islamofobica che ha giustificato il genocidio di Srebrenica non è affatto diversa da quella che sentiamo spesso nei discorsi pubblici di oggi, dove si stigmatizzano i musulmani come una minaccia alla cultura e ai valori europei.

L’avanzata delle destre in Europa, con il loro carico razzista, suprematista e discriminatorio, ce lo ricorda quotidianamente. Così come i nazionalisti serbi creavano l’immagine del musulmano bosniaco (soprannominati anche “turchi”) come un pericolo alla purezza della propria comunità sul piano etnico e religioso, così fanno oggi i partiti di destra, dall’AFD in Germania al RN in Francia, passando per Fratelli d’Italia e Lega.

Proprio pochi giorni fa, i deputati leghisti Silvia Sardone e Rossano Sasso hanno presentato una risoluzione non vincolante alla Commissione cultura della Camera contro “l’islamizzazione nelle scuole” e “l’integrazione etnica al contrario”. Qualunque cosa significhi.

La lunghissima lista dei nomi delle 8.372 vittime del genocidio di Srebrenica (Meridiano 13/Gianni Galleri)

E quanto è diverso quello che sta succedendo nella Striscia di Gaza, dove decine di migliaia di palestinesi muoiono sotto le bombe israeliane o fucilati mentre provano ad accaparrarsi un sacco di farina? Quanto è diverso, nella sostanza, l’atteggiamento dei governi europei di oggi rispetto a quelli di trent’anni fa, immobili, e quindi complici, di fronte ad un genocidio in atto? Oggi come allora, mentre migliaia di persone vengono uccise, le cancellerie europee discutono a vuoto, esitano, si appellano a una moderazione inesistente.

Parlano di diritti umani mentre si rendono complici di torture e massacri, parlano di pace e si preparano alla guerra con nuovi, faraonici investimenti in armi. Gaza oggi, come Srebrenica ieri, è la prova della natura colonialista dell’Europa. Una storia, un territorio, delle vite, sacrificabili, un prezzo scomodo da pagare per arrivare alla pace.

Srebrenica non è solo un capitolo tragico del passato, non è un’eccezione. Srebrenica è ancora qui, è l’impietoso presente europeo, è il costante sacrificio della dignità umana sull’altare del calcolo politico e del suprematismo occidentale. A noi europei, a noi che viviamo al di qua, ricordare Srebrenica allora non serve a nulla. Non serve a nulla indignarci, emozionarci, ripeterci che “non accadrà mai più”.

Finché l’Europa non sarà in grado di guardare davvero alle proprie responsabilità, alla propria essenza, di chiamare le cose con il loro nome – genocidio, razzismo, colonialismo – e di agire di conseguenza, continuerà a essere complice della disumanità. Ricordare Srebrenica non basta se non serve a gettare le basi per una nuova Europa. Perché ciò che è accaduto altre volte, può accadere di nuovo. E accade, sotto i nostri occhi.

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Marco Siragusa
Marco Siragusa

Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.