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Le “blokade” in Serbia: una mobilitazione a guida studentesca che sta trasformando radicalmente la società

di Aida Kapetanović*

Ormai da sei mesi gli studenti e le studentesse in Serbia stanno guidando un movimento che ne sta riscrivendo la storia. Una mobilitazione che ha coinvolto migliaia di cittadini, diversi settori della società, che ha portato alle dimissioni del premier e che sta mettendo a dura prova il regime decennale di Aleksandar Vučić.

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Tutto è  iniziato quando il 1 novembre 2024 il crollo della pensilina della stazione di Novi Sad ha provocato 15 vittime, salite a 16 nei mesi successivi. La pensilina era stata recentemente sottoposta a lavori di ristrutturazione, assegnati ad aziende di costruzione vicine al governo, nell’ambito di un progetto più ampio di ammodernamento dell’infrastruttura ferroviaria promosso dal governo cinese. Nonostante i lavori di ristrutturazione fossero stati presentati al pubblico già durante la campagna elettorale del 2022, la ricostruzione è proseguita fino al luglio 2024, quando le autorità ne hanno dichiarato il completamento “secondo gli standard europei”.

L’assenza di una presa di responsabilità da parte istituzionale in seguito al crollo della pensilina e la mancata volontà di avviare delle indagini sui lavori di ristrutturazione hanno trasformato questa tragedia nel simbolo più emblematico della negligenza istituzionale e del sistema di corruzione diffusa nel paese. Un sistema che permea i livelli più profondi delle istituzioni serbe, e che vede al suo vertice il presidente Vučić e il suo Partito Progressista Serbo (SNS), al potere dal 2012.

Con lo slogan “la corruzione uccide”, gli studenti e le studentesse hanno reagito trasformando la tragedia in mobilitazione. Blocchi del traffico quotidiani hanno fermato le principali città, caratterizzati da quindici minuti di silenzio per ricordare le vittime di Novi Sad. Mentre le proteste crescevano di giorno in giorno, le autorità hanno reagito tentando di reprimerle, sia attraverso l’appartato di polizia, che con l’utilizzo di pratiche informali, quali violenze, aggressioni fisiche e tentativi di investire i manifestanti.

È stata proprio una di queste aggressioni, avvenuta il 22 novembre a danno di studenti e professori della Facoltà di Arti Drammatiche di Belgrado in protesta, a provocare l’escalation della mobilitazione. Riunitisi nella loro facoltà, il 25 novembre gli studenti e le studentesse hanno dato il via alla prima blokada ― il blocco dell’attività accademica e l’occupazione dell’università.

Le blokade e i plenum

Il blocco della facoltà di Arti Drammatiche di Belgrado ha avuto un effetto domino immediato, arrivando a coinvolgere oggi la quasi totalità delle università del paese. Anche gli studenti e le studentesse delle scuole superiori si sono uniti alla mobilitazione, bloccando l’attività didattica in molti casi con il sostegno di insegnanti e genitori.

Di ciò che accade nel paese balcanico, avevamo parlato anche qua: Le più grandi proteste in Serbia dai tempi di Milošević: cosa succede?

Dalle università bloccate, gli studenti e le studentesse hanno formulato le loro quattro richieste alle istituzioni, ancora oggi rimaste disattese. Chiedono di rendere pubblica tutta la documentazione riguardante la ricostruzione della stazione di Novi Sad. Pretendono il proscioglimento delle accuse nei confronti delle persone arrestate e detenute durante le manifestazioni, e la persecuzione penale di coloro che hanno aggredito fisicamente studenti e professori in protesta. Infine, richiedono un aumento del 20% dei fondi stanziati per le università pubbliche.

Le università bloccate diventano gli spazi in cui si organizzano manifestazioni, incontri, si costruisce e si pratica la solidarietà. L’organizzazione interna delle università occupate diventa occasione di sperimentare la democrazia diretta attraverso i plenum. Si tratta di assemblee studentesche generali, nelle quali ogni studente conta un voto, che fungono da organi decisionali.

Presidi a Belgrado (Meridiano 13/Giorgia Spadoni)

Ogni facoltà ha il suo plenum, in cui vengono discusse le strategie mobilitative e poste tutte le questioni cruciali che emergono di volta in volta dalla mobilitazione. Aspetti più specifici sono affrontati nei gruppi di lavoro, che si occupano di questioni quali la riproduzione materiale delle occupazioni (il cibo, le donazioni, i materiali per le proteste), la comunicazione con i media, o il coordinamento tra facoltà. La partecipazione è ristretta solo agli studenti e alle studentesse della facoltà.

Questa misura è fondamentale per difendere l’autonomia decisionale del movimento da pressioni esterne, così come da tentativi di repressione. Nessuna informazione infatti emerge dalle lunghe discussioni dei plenum, ed ogni decisione riguardante la mobilitazione deve passare da lì, altrimenti non è considerata valida o rappresentativa del movimento. Si tratta di un metodo che caratterizza il movimento in maniera profonda, in cui la pratica della democrazia diretta e l’assenza di leader ne hanno garantito la durata e l’integrità fino ad oggi.

Guidano gli studenti, partecipa la società tutta

Nonostante gli studenti e le studentesse costituiscano la forza trainante delle mobilitazioni, chiamarle studentesche ne riduce la portata e la vastità. Svariati settori della società, infatti, si sono uniti alle proteste fin dall’inizio. Il 24 gennaio 2025 è stato proclamato uno sciopero generale, che ha visto la partecipazione di diversi segmenti del mondo del lavoro: i lavoratori della cultura e dell’educazione, le piccole imprese, il settore dei servizi e della tecnologia, della sanità, della giustizia, dell’agricoltura. Nei mesi successivi, altri scioperi si sono susseguiti.

Ma la partecipazione popolare si è diffusa soprattutto durante le manifestazioni di piazza e i lunghi blocchi stradali a Belgrado, a Novi Sad, a Niš. Lì ognuno ha fatto la sua parte: i motociclisti e i trattoristi garantendo la protezione delle manifestazioni con i loro mezzi, i cittadini portando viveri e organizzando delle vere e proprie mense in strada. Le manifestazioni hanno attraversato non solo i grandi centri urbani, ma anche cittadine più piccole, arrivando a diffondersi, si stima, a 400 città e paesi.

Il 22 dicembre 2024, la prima manifestazione di massa vedeva piazza Slavia a Belgrado gremita da una folla che contava oltre 100mila persone. Allora veniva celebrata come la più grande manifestazione della storia recente della Serbia, ma di lì a pochi mesi il record si sarebbe di gran lunga superato.

Il 15 marzo 2025, infatti, le strade di Belgrado sono state attraversate da un milione di persone. Tutto questo è avvenuto nonostante il clima di tensione alimentato dal governo e dai media pro-regime che nei giorni precedenti hanno tentato di dissuadere la partecipazione. Mentre il presidente Vučić prevedeva scontri e disordini, un gruppo di sedicenti studenti, i cosiddetti ćaci, ha messo in scena una contro-protesta dalle caratteristiche grottesche.

Proclamatisi “studenti che vogliono studiare” e protetti da batinaši (picchiatori) e dalla polizia, si sono accampati nel Parco dei Pionieri. La loro manifestazione è stata l’ennesimo tentativo da parte del governo di dare un’immagine di una società spaccata tra oppositori e sostenitori del regime, e di provocare tensioni e violenze. Nonostante ciò, un fiume di persone ha inondato Belgrado pacificamente, finché i consueti quindici minuti di silenzio sono stati interrotti da un boato improvviso, provocando il panico generale e la spaccatura del corteo.

Nei giorni successivi, svariate testimonianze hanno sostenuto che il suono derivasse da un cannone sonico, il Long Range Acoustic Device (LRAD), che emette un suono di 160 decibel percepibile fino a 5,5 chilometri di distanza, ed è perciò vietato in ambito civile. L’utilizzo di tale cannone provoca sintomi fisici gravi, come dolore prolungato alle orecchie, nausea, difficoltà respiratorie, tachicardia, e altri sintomi riscontrati dai manifestanti che si sono recati in pronto soccorso nei giorni successivi.

Nonostante le numerose testimonianze, Vučić, il Ministro dell’Interno e i vertici dell’esercito e dei servizi segreti, ne hanno smentito il possesso, e in seguito l’utilizzo durante la manifestazione, mentre nessuna indagine è stata avviata per accertare i fatti.

Una rivoluzione col sorriso che riconnette la Serbia

Una delle chiavi della diffusione di massa delle proteste e della loro durata nel tempo è stata certamente la capacità da parte degli studenti e delle studentesse di trovare pratiche innovative e creative per rispondere alle sfide della mobilitazione. Già da febbraio gli studenti hanno iniziato a intraprendere marce chilometriche per raggiungere di volta in volta una nuova città. Camminando, correndo, o in bicicletta, partivano per raggiungere una manifestazione e invitare a partecipare a quella successiva. Attraverso questa pratica hanno evitato i tentativi da parte del governo di bloccare i trasporti ed impedire la partecipazione alle manifestazioni.

Ma hanno anche dimostrato la loro perseveranza, la forza di volontà, e la superiorità etica di chi si mobilita per un obiettivo comune, chi possiede come unica arma la solidarietà e la cura collettiva. Lungo il loro cammino, gli abitanti li aspettavano sul ciglio della strada con cibo e acqua, con abbracci, con sorrisi e lacrime di commozione. Funzionari pubblici, ristoratori, negozianti, comuni cittadini, hanno aperto le loro porte per offrire ristoro, per permettergli di curare le ferite ai piedi, per ospitarli durante la notte.

Attraverso queste marce, gli studenti e le studentesse hanno portato le loro istanze di cambiamento nelle zone più remote e marginalizzate del paese. Hanno raggiunto una grande fetta di popolazione delle zone rurali, dove le condizioni sociali sono difficili e le informazioni arrivano principalmente attraverso i media di regime. Marciando, hanno attraversato la Serbia in lungo e in largo, riconnettendo il tessuto sociale costantemente frammentato dalle politiche e dalle narrazioni governative. Un passo alla volta hanno manifestato per le strade di Novi Sad, Belgrado, Kragujevac, Niš, Novi Pazar, Kraljevo.

Chi portando la šajkača, il copricapo tradizionale e militare serbo, chi l’hijab, chi con simboli che rivendicano il Kosovo, chi con quelli che richiamano al passato socialista. Questa eterogeneità, espressione della portata popolare del movimento serbo, non è certo priva di contraddizioni. Si basa su un minimo ideologico definito dalle quattro semplici e rigide richieste studentesche. Per quanto minimalista, e da alcuni ritenuto troppo poco politico, sta invece dimostrando tutta la sua politicità e potenzialità trasformativa, proprio nella sua capacità di unire la complessità e l’eterogeneità della società serba. In tal modo, sta sfidando un’idea di identità serba basata su principi etno-nazionalisti ed essenzialisti.

Ne è un esempio lampante la partecipazione degli studenti e delle studentesse di Novi Pazar, cittadina del Sangiaccato, regione del sud-ovest abitata da una popolazione a maggioranza musulmana, rimasta ai margini della vita politica serba del dopoguerra. Dopo aver bloccato la loro università, partecipato alle manifestazioni in giro per il paese, ad aprile gli studenti e le studentesse di Novi Pazar hanno ospitato una manifestazione nella loro città, dimostrando di essere parte integrante e attiva della Serbia e del suo processo trasformativo. Un processo di trasformazione sociale che ha già raggiunto risultati inimmaginabili.

Ad aprile gli studenti e i cittadini hanno tenuto bloccata, occupandola, la sede centrale della rete televisiva pubblica, la RTS. Fin dall’inizio delle mobilitazioni, il media è stato accusato da parte degli studenti di non dare copertura mediatica alle proteste e di fungere da strumento di propaganda del regime. Durante il blocco, un gruppo di veterani di guerra ha raggiunto l’edificio in supporto alla protesta. Uno di loro, veterano e invalido di guerra che ha partecipato con l’esercito serbo all’assedio di Sarajevo, ha preso parola con un intervento.

Ha ammesso come la sua generazione, che negli anni Novanta è andata a combattere in Bosnia ed Erzegovina, sia stata travisata dalle menzogne e dall’odio di media manipolati dal regime proprio come RTS. Mentre la sua generazione ha creduto e accettato queste menzogne, la generazione di studenti e studentesse odierni le sta smascherando e rifiutando. Ha affermato che gli studenti

“sono coloro che diffondono amore e illuminano il futuro. Un futuro che è ciò che tutti noi desideriamo, ed è quindi dovere delle nostre generazioni che hanno fallito di alzarci e semplicemente seguirli”.

Dopodiché, si è rivolto ai genitori degli studenti e delle studentesse di Novi Pazar, presenti al blocco della RTS per dare il cambio ai loro colleghi ortodossi durante le festività pasquali. Ha detto loro di non preoccuparsi, che non verrà torto un capello ai loro figli, poiché i veterani li proteggeranno come se fossero i loro. Perché la narrazione che ha diviso “i nostri figli e i vostri figli” si è conclusa, ha affermato. “Sono tutti figli nostri” e “sono gli eroi odierni”.

Questo discorso ha espresso la più importante trasformazione che il movimento a guida studentesca ha portato in Serbia: la rottura della narrazioni nazionaliste e divisive del dopoguerra, e la capacità di tingere di significati nuovi la bandiera serba, portata adesso con orgoglio da migliaia di persone in centinaia di piazze.

“Che l’Unione Europea impari i valori europei dagli studenti serbi”

Un aspetto degno di nota è stata l’assenza di supporto alle mobilitazioni da parte delle istituzioni dell’Unione Europea. In sei mesi di mobilitazione, ma anche di repressione violenta e illecita da parte del governo, la popolazione serba è stata lasciata sola e ha ricevuto poca copertura mediatica da parte dei grandi media occidentali. Per questo motivo gli studenti e le studentesse hanno organizzato ad aprile prima un “tour” in bicicletta fino a Strasburgo, seguito da una maratona, ancora in corso, diretta a Bruxelles. L’arrivo a Bruxelles coinciderà con una sessione del Parlamento Europeo in cui verrà discusso il report sul progresso della Serbia nel processo di integrazione.

Percorrendo migliaia di chilometri in decine di giorni, attraversando prima sei poi sette stati, gli studenti e le studentesse si sono presi la responsabilità di portare in prima persona la loro voce al Parlamento Europeo, spiegando qual è la reale situazione in Serbia. Non c’è però da sorprendersi dell’atteggiamento ambiguo da parte dell’Unione Europea. Fin dall’inizio della sua ascesa al potere Vučić ha goduto del sostegno dell’UE, che ha favorito lo sviluppo di ciò che è stata definita una “stabilitocrazia”: un governo sostenuto dall’esterno, come partner geopolitico garante della stabilità regionale, a discapito del rispetto dei diritti e della democrazia nella politica interna.

Negli ultimi anni, inoltre, la corsa all’idroelettrico e a materie prime critiche come il litio per la transizione verde europea ha dato luogo a una serie di progetti distruttivi che hanno incontrato la resistenza delle comunità locali. Questa consapevolezza, unita all’enlargement fatigue di un processo di integrazione che non porta a miglioramenti, ha generato disillusione e assenza di aspettative nei confronti dell’Unione Europea da parte dei cittadini serbi.

Forse è arrivato il momento, come si legge su un cartello degli studenti, che l’Unione Europea impari i valori europei dal movimento studentesco, sottraendosi dalla complicità con Vučić e scegliendo di stare dalla parte di chi da sei mesi riempie le piazze in nome della giustizia, della democrazia e di un’istanza di cambiamento. Nonostante le richieste degli studenti non siano state ancora accolte e il futuro della mobilitazione sia incerto, il processo di cambiamento è iniziato e non si torna indietro. In questi sei mesi il movimento a guida studentesca è riuscito a riconnettere la società serba, a praticare forme di solidarietà popolare e democrazia diretta, a mettere in discussione apertamente trent’anni di narrazione basata sull’odio nazionalista.

È riuscito a “illuminare il futuro”, riaccendendo la speranza nelle nuove generazioni, in Serbia e nel resto della regione, di potersi immaginare un futuro nel proprio paese invece che cercarlo altrove. Le sfide che il movimento dovrà affrontare sono ancora molte, prima tra tutte l’eventualità di elezioni anticipate. Intanto però non si può che guardare con gratitudine e ammirazione a questi giovani uomini e donne che stanno scrivendo un nuovo capitolo della storia serba.


*Aida Kapetanović è ricercatrice in scienza politica e sociologia per il programma regionale RECAS, coordinato dalle Università di Fiume e di Belgrado e collabora con l’organizzazione Fondacija ACT in Bosnia Erzegovina. Si occupa di lotte ecologiste e movimenti sociali nei Balcani occidentali, combinando ricerca e attivismo. Ha conseguito il dottorato presso la Scuola Normale Superiore di Firenze, con una ricerca sulle lotte a difesa dei fiumi in Bosnia Erzegovina e in Serbia. Nata a Mostar, è cresciuta in Italia come rifugiata, ed è recentemente tornata nel suo paese di origine.

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