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Priechali! La guerra in Ucraina cancella il sogno di Gagarin

In occasione del sessantunesimo anniversario del primo volo in orbita di Jurij Gagarin (1961), il 12 aprile in Russia si è celebrata, come ogni anno, la giornata della cosmonautica (Den’ Kosmonavtiki). Questa data, solitamente motivo di grande orgoglio e simbolo dei traguardi che l’ingegno umano può raggiungere, è stata però offuscata dalla guerra in Ucraina. L’invasione russa dello scorso 24 febbraio ha segnato l’inizio della fine della cooperazione internazionale in tema di esplorazione spaziale di cui Mosca era stata parte attiva e aveva beneficiato dopo la conclusione della guerra fredda.

La Z va in orbita

Il 22 marzo dal cosmodromo di Pleseck, nell’estremo nord della Russia, parte un razzo Sojuz 2.1.a: a bordo, un satellite per le comunicazioni Meridian-M del ministero della Difesa russo. Nelle ore successive al lancio, sulla pagina Facebook dello stesso dicastero compare una fotografia con un dettaglio sulla parte superiore del razzo.

La famigerata Z, diventata un simbolo dell’invasione dell’Ucraina e da molti paragonata alla svastica nazista, è immortalata sulla fiancata del Sojuz.

La Z in orbita lascia pochi dubbi sul fatto che l’isolamento che Mosca si è autoimposta coinvolge anche l’esplorazione spaziale, settore in cui la cooperazione con i partner americani ed europei era rimasta solida ed era proseguita nonostante l’annessione della Crimea nel 2014 e le conseguenti sanzioni occidentali contro la Russia.

I programmi cancellati

La sinergia internazionale che ha portato così tanti risultati negli ultimi trent’anni – su tutti la costruzione della Stazione spaziale internazionale (SSI) – è cominciata a venire meno nelle ore immediatamente successive all’inizio dell’invasione dell’Ucraina.

Già il 26 febbraio, infatti, l’agenzia spaziale russa Roscosmos annunciava la sospensione di tutte le attività e l’evacuazione del proprio personale dal Centro spaziale europeo di Kourou (nella Guyana francese) in risposta alle sanzioni occidentali. Nel breve termine, questo ha implicato la cancellazione di due lanci dei razzi Sojuz pianificati per il 2022 nell’ambito del programma Galileo. Nel lungo termine, l’Agenzia spaziale europea (ESA), sarà costretta a sostituire i Sojuz che utilizza dal 2011 come lanciatori di classe media (in termini di peso del carico utile che sono in grado di trasportare in orbita).

Il secondo programma a fare le spese della guerra è ExoMars, un altro frutto della collaborazione tra ESA e Roscosmos. Il 17 marzo, l’Agenzia spaziale europea ha annunciato la cancellazione del lancio del rover Rosalind Franklin in considerazione dell’attuale situazione internazionale. Roscosmos avrebbe dovuto fornire il lanciatore Proton M e il lander Kazačok che avrebbe portato il rover dall’orbita marziana alla superficie del pianeta rosso.

ExoMars esemplificava in modo particolarmente significativo il valore della cooperazione internazionale in tema di esplorazione spaziale.

Sia gli europei che i sovietici hanno infatti visto numerose missioni fallire nel tentativo di raggiungere e atterrare su Marte, tanto da far parlare di una “maledizione” legata al pianeta. La collaborazione avrebbe permesso a entrambe le parti sia di risparmiare sui costi che di scambiare esperienze e tecnologie maturate nel corso di decenni.

Infine, anche l’azienda privata One Web ha dovuto rivedere i propri piani a causa dell’invasione dell’Ucraina. L’impresa britannica sta costruendo una rete internet satellitare globale, in concorrenza con il più noto sistema Starlink dell’americana Space X. Dopo anni di collaborazione, One Web si è vista imporre un ultimatum da Roscosmos in vista del lancio di alcuni dei suoi satelliti programmato per il 5 marzo a Bajkonur.

L’agenzia ha comunicato che, considerato che la Gran Bretagna è un “paese ostile” alla Russia, il Sojuz già pronto sulla rampa non sarebbe partito se One Web non si fosse impegnata a fare in modo che i suoi satelliti non sarebbero stati usati a fini militari. A garanzia di questo, il governo britannico avrebbe dovuto cedere le quote dell’azienda che detiene.

Vista l’impossibilità di accettare tali condizioni, il lancio è stato annullato e One Web ha siglato un contratto con i rivali di Space X lo scorso 21 marzo che permetterà ai britannici di usare i razzi Falcon 9 per lanciare i propri satelliti.

La Stazione spaziale internazionale

Nonostante tutti i programmi cancellati, la Stazione spaziale internazionale, il laboratorio che opera da oltre vent’anni in orbita terrestre bassa  grazie alla sinergia delle agenzie spaziali americana, canadese, europea, giapponese e russa, non ha subito, per ora, le conseguenze del conflitto.

A bordo, i cosmonauti russi continuano a lavorare con i colleghi stranieri e, come da programma, l’astronauta americano Mark Vande Hei il 30 marzo è rientrato sulla Terra a bordo di una capsula Sojuz, dopo una permanenza record di 355 giorni nello spazio. Con ogni probabilità sarà l’ultimo americano a volare su questa storica capsula.

La struttura della SSI rende complessa la fine delle operazioni anche nel caso in cui le parti in causa non abbiano più la volontà di collaborare: se i propulsori che vengono periodicamente accesi per mantenere in orbita la stazione si trovano nel settore russo della stazione, i pannelli solari che forniscono energia all’intera SSI sono collocati nella parte americana. Appare improbabile, quindi, che la stazione venga effettivamente dismessa prima della data prevista del 2030.

Da Gagarin alle stalle

I programmi cancellati, le collaborazioni andate in fumo e i miliardi persi hanno scatenato una crisi di credibilità per il programma spaziale russo da cui sarà difficile uscire anche nel caso di una fine del conflitto nel breve termine.

Tale crisi precede il 24 febbraio e, in un certo senso, è andata di pari passo al decadimento della Russia putiniana.

Esemplare in tal senso è il caso di Valentina Tereškova, la prima donna nello spazio che nel 2020 si è resa partecipe della farsa grottesca che ha permesso a Vladimir Putin di rimanere presidente sostanzialmente a vita. L’ex cosmonauta, la cui notorietà globale sfiora quella di Gagarin, attualmente membro della Duma (la camera bassa del parlamento russo), si è infatti esposta in prima persona proponendo l’abolizione del numero massimo di mandati presidenziali, di fatto azzerandoli e così spianando la strada a Putin per governare anche una volta terminato l’attuale mandato nel 2024.

Anche la nomina di Dmitrij Rogozin, un politico non addetto ai lavori, a direttore di Roscosmos dal 2018 costituisce un danno d’immagine non indifferente. Senza citare alcune sue dichiarazioni imbarazzanti negli anni passati – la più notevole delle quali risale al 2014 quando disse che, senza lo Space Shuttle, gli americani avrebbero avuto bisogno di un “trampolino” per andare nello spazio – da quando è iniziata la guerra Rogozin si è lanciato in una crociata personale virtuale contro gli ex partner americani ed europei.

Nell’ordine, ha prima minacciato di sganciare il settore russo della SSI dal resto della stazione portandola a un rientro in orbita incontrollato su regioni densamente popolate della Terra, quindi si è cimentato in uno scambio di insulti in russo su Twitter con l’astronauta canadese Scott Kelly. Infine, ha minacciato di interrompere la collaborazione sulla SSI nel caso le sanzioni occidentali contro la Russia non fossero state rimosse entro il 31 marzo (cosa puntualmente non avvenuta senza che ce ne fossero conseguenze immediate).

In anni recenti poi, i russi sono incappati in una serie di debacle tecniche per cui hanno dimostrato non solo di non poter competere con gli americani in tema di esplorazione spaziale come ai tempi dell’Unione Sovietica, ma anche di non essere partner affidabili come sembravano essere fino ad anni recenti.

Negli ultimi dodici mesi, in due casi questi errori hanno persino messo a rischio l’incolumità dell’equipaggio della SSI. Nel luglio 2021, uno dei propulsori del nuovo modulo scientifico russo Nauka, lanciato con un ritardo di un ventennio, si è acceso in modo incontrollato portando l’intera stazione fuori assetto. Lo scorso novembre, invece, un test missilistico di un razzo anti-satellite del ministero della Difesa russo ha colpito un vecchio satellite sovietico in orbita disintegrandolo e creando una massa di detriti nella orbita terrestre bassa che ha rischiato di colpire la stessa SSI.

Discorso a parte è quella del cosmodromo Vostočnyj, lo spazioporto destinato a sostituire quello storico di Bajkonur e il luogo dove Putin ha celebrato il giorno della cosmonautica con il collega e alleato bielorusso Aleksandr Lukašenka. 

Con il collasso dell’Unione Sovietica, Bajkonur si è ritrovata in territorio del neonato Kazakhstan, costringendo la Russia a pagare un canone annuo per l’utilizzo del cosmodromo. Per Mosca è inaccettabile avere un’infrastruttura tanto importante fuori dal proprio territorio nazionale e così, nel 2011, sono iniziati i lavori per la nuova base di lancio.

Nonostante lo stesso Putin abbia sottolineato in passato l’importanza strategica di questo progetto (costato a oggi 4,7 miliardi di dollari), la conclusione dei lavori è stata via via posticipata, rivelando il livello di corruzione dell’apparato statale russo. In base a un’indagine del Comitato investigativo federale aperta nel 2015 dopo uno sciopero degli operai impegnati nei lavori della base e conclusasi con 52 arresti, almeno 172 milioni di dollari sono stati sottratti da diversi ufficiali coinvolti nel progetto.

Con queste premesse sembra difficile che la Russia possa portare avanti un programma spaziale significativo o risultare un partner interessante per attori come Cina e India.

Se il volo di Jurij Gagarin fece sognare milioni di cittadini sovietici alle prese con le difficoltà e le privazioni quotidiane, è lecito aspettarsi che i cittadini della Russia putiniana ora avranno poche distrazioni provenienti dallo spazio.

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Alessio Saburtalo
Alessio Saburtalo

Alessio Saburtalo è uno pseudonimo. L'autore che vi si cela si occupa principalmente di Caucaso con sporadici sconfinamenti in Russia e Asia Centrale. Saburtalo è un quartiere di Tbilisi.