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Alessandro I, lo zar che sconfisse Napoleone

Quando si pensa al periodo delle guerre napoleoniche molto spesso si ha in mente una visione della realtà meno complessa di quanto essa realmente fu.

Da un lato nella nostra mente vediamo l’esercito di Napoleone, imperatore, sì, ma di una Repubblica, dilagare in mezza Europa diffondendo gli ideali di liberté, égalité e fraternité tanto cari alla Rivoluzione del 1789, e dall’altra un’alleanza di paesi reazionari, sostenitori dell’Ancien Régime, conservatori, votati all’annientamento di qualsiasi afflato rivoluzionario e alla restaurazione dello status quo precedente al 1789.

Questa visione possiede, pur nella sua semplificazione, una radice di verità: l’esercito napoleonico si percepì sempre, più di altri apparati imperiali, come portatore degli ideali della Francia rivoluzionaria, e figure come il cancelliere austriaco Klemens von Metternich non possono certamente essere annoverate fra le fila dei progressisti della sua epoca.

Tuttavia, se volessimo fermare qui la nostra analisi, rischieremmo di non cogliere la complessità di un’epoca in cui, mentre Napoleone tentava di tenere il piede sinistro nella scarpa della rivoluzione e il piede destro nello stivale della legge e dell’ordine autoritario, non tutti gli avversari di Bonaparte furono del tutto o in ogni momento degli accaniti conservatori. Possiamo affermare dunque che una figura che ben risponde alla necessità di ricostruire tale complessità al di fuori degli schemi ideologici di cui parlavamo pocanzi è, senza timore di essere smentiti, lo zar di Russia Alessandro I.

Alessandro I, un giovane principe illuminato?

Nell’immaginario collettivo europeo gli zar di Russia costituiscono, per lo più a ragione, il prototipo degli autocrati reazionari, aggrappati con le unghie e con i denti a un potere assoluto che solo l’ondata travolgente della Rivoluzione russa riuscirà a scardinare. Questo vale, certamente, per alcuni di loro, e per certi versi anche per Alessandro I Romanov, contemporaneo di Napoleone. Ma siamo così convinti che questa casellina della storia, o meglio questa definizione delle scienze politiche, basti a inquadrare una figura così complessa? Lo vedremo.

Il futuro zar Alessandro nasce nel 1777, figlio primogenito dello zar Paolo I, ma venne sin da subito allontanato dal padre e cresciuto dalla nonna, la potente e influente zarina Caterina II, conosciuta anche come Caterina la Grande.

La zarina, che preferiva Alessandro al suo successore designato, ovvero il figlio Paolo, educò il giovane principe secondo principi apparentemente contraddittori. L’educazione di Alessandro ruotò infatti attorno a tre figure: l’illuminista franco-svizzero Frédéric-César de La Harpe, ospite della corte russa, lo istruì a proposito della politica attraverso la lettura delle opere di Rousseau; l’istruttore militare Nikolaj Saltykov, invece, trasmise al giovane principe la disciplina militare e gli elementi dell’autocrazia tradizionale russa, molto lontana dal liberalismo; e per l’istruzione religiosa fu scelto Andrej Afanasjevič Samborskij, un pope ortodosso fuori dagli schemi, che insegnò al giovane principe la lingua inglese, avendo vissuto a Londra egli stesso per un periodo.

Questa formazione, apparentemente contraddittoria, in realtà rispondeva alla concezione di Caterina secondo la quale uno zar doveva avere nei fatti il potere assoluto sull’Impero, ma uniformarsi come un principe illuminato – seppur entro certi limiti – ai precetti del liberalismo.

Questa educazione contraddittoria si innestò su un carattere abbastanza fragile del giovane principe, che fu colpito dalla perdita della nonna Caterina nel 1796 e dalla scelta del padre, divenuto zar nello stesso anno con il nome di Paolo I, di concentrare la formazione del figlio sull’ambito militare.

Del resto, Paolo I non regnò a lungo. Il nuovo zar era un teutomane impenitente, tanto che ignorò le richieste della nobiltà russa, limitò le prerogative degli aristocratici, si circondò di consiglieri prussiani o filotedeschi e arrivò perfino ad assegnare all’esercito russo l’equipaggiamento dell’esercito prussiano, del tutto inadatto al clima rigido della Russia. Infine, lo zar venne ucciso per strangolamento in una congiura di palazzo, e gli assassini, che non vennero perseguiti, innalzarono al trono il figlio Alessandro, che pare abbia chiesto invano, e fino all’ultimo, che venisse risparmiata la vita a suo padre.

La politica interna di Michail Speranskij

Divenuto zar nel 1801, negli anni dell’ascesa in Francia di Napoleone, la politica interna dello zar Alessandro parve improntata a un iniziale, seppur timido, liberalismo, ma anche dominata da una incertezza di fondo che dominerà tutta l’azione politica e militare del sovrano. 

Da un lato costituì un consiglio privato, composto dal principe Adam Jerzy Czartoryski, dal conte Pavel Stroganov, dal conte Viktor Kočubej e Nikolaj Novosil’cev, amici dello zar e anch’essi di idee liberali, ed emarginò la burocrazia e l’aristocrazia russa più reazionaria formando otto ministeri che rispondevano direttamente all’imperatore.

Fra i ministri designati dallo zar emerse ben presto Michail Speranskij, che, in accordo con Alessandro I, portò avanti una serie di riforme che modificarono la società e la politica russe: il numero delle università venne portato da tre a sei, e in generale venne riformata complessivamente l’istruzione pubblica, nel tentativo di sottrarre il monopolio dell’educazione alle istituzioni religiose; aumentò il numero dei ministeri e dei funzionari pubblici, imponendo il superamento di un esame a tutti i candidati che volessero ottenere un posto nell’amministrazione pubblica.

Speranskij propose anche un tentativo, mai attuato, di trasformazione del sistema zarista da un’autocrazia assolutista a un sistema monarchico liberale, con una legge elettorale censitaria e l’esistenza di un parlamento monocamerale con potere legislativo.

Dall’altro lato, però, i tentativi di Alessandro di condurre riforme liberali vennero fortemente osteggiati dalla nobiltà e dalla Chiesa ortodossa, ed egli non ebbe mai la capacità di portare a termine disegni di ampio respiro.

Ad esempio, lo zar non fu mai in grado di abolire realmente la servitù della gleba, per quanto la ritenesse uno dei grandi mali della Russia imperiale, e anche molte altre delle riforme portate avanti da Speranskij e dagli altri ministri furono, in fin dei conti, inefficaci o parziali. Perfino il progetto di dotare la Russia di una costituzione e di un parlamento monocamerale elettivo rimase, anche a causa del pericolo dovuto all’invasione napoleonica, soltanto sulla carta per l’opposizione radicale di buona parte dei nobili e del clero ortodosso.

Il rapporto con Napoleone

In effetti, e per certi versi in maniera paradossale, fu proprio il rapporto con Napoleone Bonaparte che provocò in definitiva in Alessandro I l’allontanamento dalle idee del liberalismo, abbracciato – seppur in maniera sempre moderata – negli anni giovanili.

Napoleone, più grande dello zar di circa otto anni, da un lato aveva da tempo abbandonato in Patria molte delle proprie convinzioni rivoluzionarie, sostituite da un pragmatismo che gli permise di presentarsi sia come uomo d’ordine e disciplina, e dunque autoritario, sia come difensore delle conquiste della Rivoluzione, che sarebbero andate perse nel caos senza l’intervento di Bonaparte. E fu proprio questa seconda visione che giunse nella Russia di Alessandro I: Napoleone venne da tutti visto sin da subito come il fautore delle idee della Rivoluzione esportata sulla punta delle baionette, e lo zar non poté mai cessare di vedere, dietro la figura di Bonaparte, la sinistra ombra della ghigliottina.

Ciononostante, all’inizio il rapporto fra i due governanti si costruì nel segno di un rispetto e di una stima personale reciproci. Addirittura, Alessandro vide inizialmente Napoleone come espressione vivente del liberalismo trionfante, in questo incoraggiato dal suo precettore Le Harpe. Dal canto suo Napoleone definì lo zar uno “scaltro bizantino”, un “Talma del Nord”, dove per Talma si intendeva un noto attore francese dell’epoca, e dunque un politico capace di impersonare di volta in volta il liberale e l’autocrate, il progressista e il monarca autoritario.

Tuttavia, non fu mai possibile giungere ad un accordo fra la Russia e la Francia. Beninteso, non che Napoleone non ci abbia provato a più riprese: nel 1805, dopo la battaglia di Austerlitz, ad esempio, quando le armate francesi sbaragliarono quelle russo-austriache, Bonaparte per prima cosa, prima ancora di entrare vittorioso a Vienna, volle incontrare lo zar, a cui propose di costituire una alleanza fra Russia e Francia. I due paesi erano, secondo l’imperatore francese, alleati naturali poiché non contigui e, dunque, in grado insieme di dominare il mondo.

Alessandro I, nonostante fosse affascinato dalla proposta, anche spinto dai propri consiglieri e dal fratello Costantino rifiutò le avances di Napoleone, e preferì restare alleato di Austria e Prussia.

Il 1806 segnò in qualche modo un primo allontanamento radicale fra Napoleone e lo zar. Dopo le vittorie francesi a Jena, contro i prussiani, e a Eylau, contro i russi, un gruppo di opinione capeggiato da Costantino Romanov tentò di spingere Alessandro I a siglare la pace con Napoleone. Lo zar, al contrario, chiamò la Russia ad una vera e propria guerra santa con quello che considerava oramai il nemico numero uno per la pace per l’intera Europa: i russi vennero però sbaragliati in maniera disastrosa l’anno dopo nella battaglia di Friedland, e ancora una volta, nella pace che ne seguì, Napoleone propose allo zar una pace basata sulla spartizione dell’Europa fra Francia e Russia.

L’incontro fra Napoleone e Alessandro avvenne presso Tilsit, su di una zattera nel mezzo del fiume Niemen. La Prussia, che non venne invitata alla trattativa, fu smembrata e spartita fra i napoleonici e i russi, mentre venne anche deciso il destino della Finlandia e una pace fra Francia e Russia che apparve sin da subito, tuttavia, estremamente fragile.

La Campagna di Russia e la Battaglia di Lipsia

L’ultimo grande e vero punto di rottura dei rapporti sia diplomatici che personali fra Napoleone e Alessandro I avvenne però nel 1812 quando Bonaparte iniziò la serie di operazioni militari oggi conosciute come Campagna di Russia.

Le cause del nuovo conflitto furono molteplici, e non tutte chiaramente identificabili: da un lato il rifiuto da parte dello Zar di una alleanza matrimoniale proposta da Napoleone, dall’altro la mancata volontà da parte dei francesi di risolvere la situazione della Prussia, che rimaneva in parte occupata dalle armate napoleoniche; tuttavia la vera disputa si articolò attorno alla Polonia, che Alessandro I temeva potesse essere riunificata in un regno autonomo sotto protezione francese, dopo lo smembramento iniziato nel 1772. Per prevenire questa minaccia lo zar iniziò fin dal 1809 i preparativi per una guerra contro la Francia, ma fu Napoleone, alla fine, a rompere gli indugi, e dopo essersi assicurato la neutralità di Austria e Prussia, invase l’Impero russo.

Come sappiamo, la spedizione napoleonica si risolse in un disastro. Dopo una iniziale rapida avanzata, tipica nella tattica di Napoleone tanto da far diffondere il detto secondo cui i francesi “vincono le battaglie grazie alle proprie gambe”, la Grande Armata si vide impantanata in un paese ostile, dove la guerra santa proclamata da Alessandro si era tradotta in una incessante e sanguinosa guerriglia da parte della popolazione del paese invaso.

L’arrivo dell’inverno colse i francesi del tutto impreparati, in una Mosca conquistata da Napoleone ma avvolta dalle fiamme subito dopo, mentre l’imperatore entrava trionfante nel Cremlino. Non è chiaro se l’incendio della città sia stato ordinato da Alessandro o dal suo principale generale, Michail Kutuzov, o se invece fu una scelta indipendente di Fëdor Rostopčin, governatore della città, dettata dalla volontà di indebolire gli invasori. Sta di fatto che questi avvenimenti abbatterono il morale delle truppe francesi e incoraggiarono lo sviluppo di bande armate di civili russi che attaccavano reparti isolati dell’esercito napoleonico.

La campagna si risolse ben presto in una ritirata rovinosa, dove la Grande Armata napoleonica che aveva dilagato in tutta Europa per quasi vent’anni si vide distrutta sin nelle proprie fondamenta: il corpo di spedizione, costituito da oltre 600mila soldati, di cui 450mila nella massa principale guidata dall’imperatore, era ormai ridotto a poco più di 100mila uomini.

Le perdite ammontarono a 400mila tra morti e dispersi; 100mila furono i prigionieri. Gli attacchi dei cosacchi non lasciarono spazio e respiro ai francesi, e il rigido inverno russo costrinse Napoleone ad abbandonare salmerie, malati e feriti nel tentativo di conservare almeno una minima parte del proprio esercito. Dunque, possiamo dire che le truppe di Kutuzov e Alessandro I riuscirono dove tutti gli altri nemici di Napoleone avevano fallito: distruggere completamente quella Grande Armata che, sin dalle campagne d’Italia di venti anni prima, era stata la sorgente e la base principale del potere di Bonaparte.

La battaglia di Lipsia, combattuta fra il 16 e il 19 ottobre 1813, fu il colpo di grazia per l’intero sistema di potere napoleonico: privato di gran parte dei suoi veterani, morti o dispersi nella campagna di Russia, Napoleone non riuscì a sostenere, nonostante l’iniziale vantaggio, l’attacco combinato delle forze russe, austriache e prussiane e, perduta la battaglia, si vide costretto ad abdicare.

Gli ultimi anni e il mistero di Fëdor Kuz’mič

La sconfitta di Napoleone, che dopo la parentesi dei Cento Giorni e la battaglia di Waterloo venne esiliato sull’isoletta inglese di Sant’Elena, nell’Atlantico, fu un momento di svolta anche negli atteggiamenti di Alessandro I.

Lo zar, fortemente osteggiato da Inghilterra e Austria, non riuscì a imporre la propria visione che prevedeva la costituzione di un regno di Polonia autonomo ma legato in unione personale alla corona russa. La Polonia venne invece spartita fra Russia e Prussia, alla quale toccarono sia Poznań che Cracovia, che Alessandro avrebbe voluto unificare con il napoleonico ducato di Varsavia, assegnato ai russi. In generale il vero vincitore del Congresso fu Metternich, che si presentò come ago della bilancia per la stabilità europea.

Dopo il Congresso di Vienna le tendenze mistiche di Alessandro, già presenti negli anni precedenti, trionfarono. Deluso dal liberalismo e dai tentativi di riforma che, in Russia, erano oramai osteggiati da una parte preponderante delle élite, lo zar ebbe ad affermare, in un incontro con il conservatore Metternich, di essersi del tutto pentito della propria iniziale adesione, seppur moderata, alle idee dell’illuminismo francese. Lo zar divenne sempre più chiuso e introverso, e prese l’abitudine di fare lunghe penitenze corporali e digiuni, avvicinandosi allo stile di vita degli eremiti tipici di alcune frange estremiste della Chiesa ortodossa russa.

Morì il primo dicembre 1825 fra le braccia dell’imperatrice, dopo aver contratto il tifo esantematico di ritorno da un viaggio in Crimea, dopo anni passati preda di frequenti crisi mistiche, visioni ed epifanie.

Attorno alla morte del sovrano si sviluppò anche per questo una leggenda: secondo alcuni sostenitori dell’imperatore lo zar avrebbe inscenato la propria morte per dedicarsi ad una vita ritirata in un monastero. Alcuni credettero di riconoscere lo zar in Fëdor Kuz’mič, uno starecs, ossia un eremita appartenente al cristianesimo ortodosso, vissuto a Tomsk, in Siberia, fino al 1864.

Non abbiamo notizie certe a supporto di tale diceria: è utile però ricordare qui che, secondo alcune testimonianze, i successori di Alessandro I, ossia Nicola I e Alessandro II, si mostrarono sempre deferenti nei confronti di Fëdor Kuz’mič, personaggio attorno al quale Tolstoj scrisse un racconto incompiuto, e che Nicola II andò a pregare sulla sua tomba nel 1893. Di un fatto, però, siamo certi: quando nel 1921 i bolscevichi aprirono la tomba dello zar Alessandro I, tumulato nella cattedrale di San Pietro e Paolo a San Pietroburgo, la trovarono vuota.

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Davide Longo
Davide Longo

Nato nel 1992, vive e lavora a Varese. Laureato in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Milano, ha studiato lingua e cultura cinese e trascorso un periodo di studio all’Università di HangZhou, Zhejiang, Repubblica Popolare Cinese. Oggi è docente di lettere nella scuola secondaria. Appassionato di storia e politica sia dell’Estremo Oriente, sia dei Paesi dell’ex blocco orientale, ha scritto per The Vision e Il Caffé Geopolitico ed è autore di due romanzi noir: Il corpo del gatto (Leucotea, 2017) e Un nido di vespe (Fratelli Frilli, 2019). È redattore di Scacchiere Storico, associazione di ricerca e divulgazione storica nata nel 2020.