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Vasil Laçi e l’attentato a Vittorio Emanuele III

Io non ho ucciso Umberto, ho ucciso un re, ho ucciso un principio.

Con queste parole l’anarchico Gaetano Bresci giustificava l’assassinio del Re d’Italia Umberto I di Savoia avvenuto il 29 luglio 1900. A distanza di quarantuno anni, un antifascista albanese di nome Vasil Laçi tentò di ripetere l’impresa di Bresci sparando a Vittorio Emanuele III, Re d’Italia e d’Albania e figlio di Umberto, in visita a Tirana. Fallendo però miseramente.

Nato a Napoli l’11 novembre 1869 dal matrimonio tra Umberto I e Margherita di Savoia, Vittorio Emanuele III regnò per ben 46 anni, attraversando le due guerre mondiali, il ventennio fascista e ricoprendo anche la carica di Imperatore d’Etiopia (dal 1936 al 1943) e Re d’Albania (dal 1939 al 1943). In questo lasso di tempo, sfuggì a tre tentativi di assassinio: il primo il 14 marzo 1912 a Roma, il secondo il 12 aprile 1928 a Milano e il terzo il 17 maggio 1941 a Tirana.

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Vasil Laçi, antifascista

Quando il 2 maggio 1941 il giovane diciannovenne Vasil Laçi, nato nel piccolo centro di Piqeras, vicino a Saranda nel sud dell’Albania, viene a sapere che due settimane dopo il re Vittorio Emanuele III avrebbe visitato Tirana, le strade della capitale albanese erano già piene di camicie nere. Le truppe fasciste avevano infatti occupato militarmente il paese due anni prima e l’andamento della guerra era ancora favorevole all’asse Roma-Berlino.

Laçi però, come molti suoi concittadini, mal sopportava l’occupazione italiana. Grazie a un cugino di Korçë, era entrato in contatto con alcuni gruppi antifascisti aiutando alcuni di loro a fuggire dai rastrellamenti. Proprio la frequentazione di quegli ambienti aveva alimentato la sua ostilità verso gli occupanti.

Sfuggendo al rigido controllo fascista e operando praticamente in quasi completa solitudine, Laçi ideò in pochi giorni un piano per assassinare il Re. Si fece così assumere all’Hotel International, l’albergo dove avrebbe soggiornato Vittorio Emanuele III, e riuscì a recuperare una pistola Beretta M1915.

Il tentato regicidio di Vittorio Emanuele III

Due settimane dopo, il 17 maggio 1941, il re attraversava le strade di Tirana pronto a far ritorno in patria dopo una visita di sette giorni. Tra la folla, un giovane vestito in abiti tradizionali albanesi. Il modo migliore per non destare sospetti. Ma anche, e questo i fascisti non potevano ancora immaginarlo, un modo per rivendicare la propria identità, le proprie origini, in netta contrapposizione agli occupanti. Quel giovane era proprio Vasil Laçi. Quando vide a pochi passi il re e Shefqet Bej Vërlaci, primo ministro dell’Albania, estrasse la sua beretta ed esplose quattro colpi gridando “Viva l’Albania! Abbasso il fascismo!”.

La scarsa preparazione militare e, forse, l’emozione di chi sa di poter fare la Storia gli giocarono un brutto scherzo. Nessuno dei colpi andò a segno, lasciando praticamente illeso il re.

Laçi fu arrestato e condotto in carcere, dove passò dieci giorni sotto tortura con la polizia che provò in tutti i modi a strappare i nomi dei complici. Il giovane antifascista aveva però agito da solo, spinto dall’odio verso gli occupanti e dalla voglia di rivedere il proprio paese libero e indipendente. Il governo italiano, preoccupato che il gesto potesse alimentare una rivolta, fece passare per buona la ricostruzione secondo cui Vasil Laçi avesse avuto problemi economici con il primo ministro albanese, nascondendo quindi il carattere politico e antifascista del suo gesto.

Ritratto di Vittorio Emanuele III (Wikimedia)

L’occupazione dell’Albania durante la Prima guerra mondiale

Quello tra il Regno d’Italia di Vittorio Emanuele III e l’Albania era stato sempre un rapporto complicato, fatto di vicinanza, dominio e tentativi di emancipazione politica.

Durante la Prima guerra mondiale, le truppe italiane erano temporaneamente sbarcate nel paese delle aquile in contrapposizione all’egemonia austriaca nella regione balcanica. Nonostante le rassicurazioni volte a garantire l’indipendenza del paese, quella italiana rappresentò una vera e propria occupazione con l’intento, nemmeno troppo segreto, di mantenere il controllo di Valona, dell’isola di Saseno e di “un territorio sufficientemente esteso per assicurare la difesa di questi punti” come sancito dall’articolo 6 del Patto di Londra, sottoscritto con Germania e Austria-Ungheria nel 1915.

Il popolo albanese, stanco della presenza italiana anche dopo il conflitto e fortemente geloso della propria indipendenza, nel giugno 1920 si sollevò contro le truppe occupanti presenti a Valona costringendole in poche settimane al ritiro e al pieno riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Albania.

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Il periodo tra le due guerre

Pur rinunciando al controllo diretto del territorio, l’Italia mantenne un rapporto privilegiato con l’Albania e soprattutto con re Zog I salito sul trono nel 1928 dopo aver ricoperto anche la carica di primo ministro e presidente della Repubblica.

Il governo fascista vedeva nel monarca albanese un importante alleato per mantenere una propria sfera di influenza nei Balcani tanto che sostenne economicamente l’Albania anche con l’invio di funzionari e militari. Il primo trattato di Tirana del 1926 legava i due paesi con un’alleanza militare in caso di minaccia esterna all’integrità territoriale albanese. Nei fatti, il paese balcanico tornava a essere un protettorato italiano.

Un ulteriore trattato sottoscritto l’anno successivo riconosceva la possibilità di invio di truppe italiane in Albania in caso di attacco e un rafforzamento della collaborazione economica. In questo modo, la politica estera albanese veniva definitivamente sottomessa alle decisioni italiane. Il terreno per la definitiva annessione era ormai pronto.

Vittorio Emanuele III Re d’Albania

Il 7 aprile 1939, le truppe fasciste occupavano l’Albania costringendo re Zog alla fuga. La corona venne quindi “offerta” a Vittorio Emanuele III. Lo Statuto fondamentale del Regno d’Albania del 3 giugno, emesso personalmente dal Re d’Italia, recitava nel preambolo

Nell’accettare l’offerta della Corona d’Albania […] Ci siamo assunti l’alto compito di provvedere alla cura dei Nostri figli albanesi e di condurre anche questo nobile Popolo, rinnovato nel segno del Littorio, verso i suoi più alti destini. […] abbiamo deciso di elargire al nostro amato Popolo albanese uno Statuto fondamentale, pegno altresì del Nostro affetto e della Nostra sollecitudine paterna

Statuto fondamentale del Regno d’Albania

Un mix di colonialismo e paternalismo, in tipico stile fascista, cui il re si fece portavoce.

L’articolo 12 dello Statuto riconosceva inoltre al re la possibilità di nominare un Luogotenente Generale in grado di esercitare tutti i poteri del monarca. A tal compito fu designato Francesco Jacomoni.

Prima pagina del Corriere della Sera dell’8 aprile 1939

La resistenza albanese

Pochi mesi dopo l’attentato di Laçi, le più importanti formazioni comuniste, con l’aiuto di alcuni dirigenti jugoslavi, si riunirono e diedero vita al Partito Comunista d’Albania con Enver Hoxha a capo del Comitato centrale provvisorio. In poco tempo il partito riuscì a organizzare gruppi partigiani dediti al sabotaggio e alla lotta armata.

Poche settimane prima della firma dell’armistizio dell’8 settembre, con la conseguente occupazione tedesca dell’Albania, le truppe italiane si erano rese protagoniste di una delle azioni più efferate della guerra in territorio albanese. Il 14 luglio 1943 vennero dati alle fiamme oltre 80 villaggi nel sud-ovest del paese, con l’uccisione di centinaia di civili come forma di rappresaglia contro i partigiani. Poco più di un anno dopo, i comunisti liberavano definitivamente il paese dando vita a una delle più longeve esperienze comuniste d’Europa.

Vasil Laçi, eroe del popolo

Nella nuova Albania comunista, la figura di Vasil Laçi venne subito riabilitata. Il suo attentato venne celebrato come un atto di grande valore e sacrificio, un esempio di coraggio contro l’oppressore. Il Partito lo elevò a figura leggendaria tanto da riconoscergli il titolo di Eroe del popolo d’Albania e raccontando la sua storia in un libro e un film nel 1980 dal titolo Plumba Perandorit (Proiettili per l’imperatore).

Il giornale in lingua inglese New Albania, pubblicato a partire dal 1945, raccontava nel numero 1 del 1970 gli ultimi momenti di vita di Vasil Laçi. Mandato alla forca dai suoi carcerieri, il mancato regicida avrebbe espresso come ultimo desiderio quello di ricevere un pettine per pettinarsi i capelli. Un gesto “tradizionale degli eroi albanesi che disprezzarono la morte pettinandosi i capelli prima di esalare l’ultimo respiro”, come riportato nel giornale. Al rifiuto di accettare l’ultimo desiderio, il condannato a morte avrebbe gridato “Viva l’Albania libera, Viva Stalin, abbasso i fascisti!”

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Marco Siragusa
Marco Siragusa

Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.